“Tel Aviv, una bolla da ingrandire” Etgar Keret si racconta a Pagine Ebraiche
Il racconto che dà il titolo alla ultima raccolta di Etgar Keret, Un intoppo ai limiti della galassia (Feltrinelli), è una corrispondenza via mail tra due israeliani. Senza entrare nel merito, lo scambio – disseminato, tra un racconto e l’altro, in tutto il libro – diventa ben presto uno scontro tra Michael Varshavsky, figlio di una sopravvissuta alla Shoah, e Sefi Moré, figlio di profughi iracheni. Al centro, la delegittimazione della sofferenza dell’altro e il tentativo di affermare la propria come più importante. “Non importa in che comunità ti trovi, c’è sempre chi vuole promuovere una certa narrativa vittimista in cui è come se lui fosse quello che ha patito di più. Penso che ciascuno dei gruppi che vive in Israele ha sofferto l’antisemitismo o la discriminazione: i sopravvissuti alla Shoah, chi è scappato dai paesi arabi, chi dall’Africa. Tutte le comunità si sentono colpite. E in questo quadro possiamo inserire anche i palestinesi, anche loro sono vittime. E a questo punto si innesca una sorta di competizione, di Eurovision del vittimismo in cui ciascuno cerca di dire che è il più misero. Credo che qualcosa di questa dinamica del ‘chi ha sofferto di più’ si sia innestata in modo significativo nell’identità israeliana. E nella dinamica puoi inserire anche i palestinesi. E questo impedisce l’empatia nei confronti dell’altro: se l’unica cosa che importa è essere l’uomo che ha sofferto di più, non avrai spazio per il dolore degli altri. Di questo parla il racconto”.
È la spiegazione dello stesso Keret a Pagine Ebraiche durante la presentazione milanese di Un intoppo ai limiti della galassia. Una raccolta di racconti brevi nello stile che caratterizza uno degli scrittori israeliani più apprezzati a livello internazionale: storie in cui la realtà si interseca con la fantasia, l’ironia paradossale con la malinconia, in cui si parla di umanità ma anche nello specifico di Israele e di come viverci influenzi il proprio modo di vedere il mondo. “Se sei pessimista non hai di che essere triste perché dici: questa è la vita. Ma se sei convinto che ci sia un potenziale, che potremmo essere in un luogo diverso, che ci sia qualcosa di mancante, allora tutto cambia. Io sono sempre stato ottimista, un po’ perché è il mio modo di vedere il mondo ma anche per ideologia e strategia. Non capisco il gusto di pensare che tutto andrà male. Ora, se guardi a Israele, dal punto di vista razionale ci sono tutte le ragioni per non essere ottimisti. Dall’altra parte, quando vivi in un luogo dove senti il desiderio delle persone di cambiamento, la loro frustrazione per la situazione attuale, allora hai una speranza”. Forse è anche per questo che gli israeliani, nelle diverse classifiche sulla felicità, si trovano spesso ai piani alti. Sono consumatori di vita, quando possono accelerano. È questo ritmo veloce che spiega la natura della narrativa di Keret? Racconti brevi per poter voltare costantemente pagina e al contempo toccare tutte le questioni che gli stanno a cuore? “Nella letteratura israeliana non ci sono molti scrittori di racconti brevi. C’è una canzone israeliana che recita così: ‘un uomo urla quello gli manca’, ovvero ricerchi sempre quel che non hai. Il fatto che Israele sia uno Stato nuovo, arrivato dopo l’oscurità della Shoah e con un futuro incerto, in realtà credo spinga i lettori israeliani alla narrativa epica intergenerazionale come Viaggio alla fine del millennio di Abraham B. Yehoshua o Vedi alla voce: amore di David Grossman. Poiché siamo dei frammenti minuscoli nella storia allora c’è una certa tendenza a ricercare epos che permettano di farci sentire parte della comunità. Da questo punto di vista io non sento di scrivere quello che le persone desiderano ma quello che vedo: il fatto che la società israeliana sia fatta da frammenti, difficili da ricomporre in una fotografia unica”. E così ogni racconto è un frammento. Non c’è il desiderio di essere rappresentativo in Keret, i cui racconti, spiega lo scrittore a Pagine Ebraiche, “derivano dalle emozioni a cui cerco di legare delle storie, delle immagini. Per esempio il racconto che apre il mio ultimo libro: padre e figlio camminano lungo una via e vedono un uomo sul tetto di un edificio. Il padre è spaventato perché ha paura che l’uomo voglia suicidarsi. Il figlio è entusiasta perché pensa che l’uomo sia un eroe e voglia lanciarsi per volare. Qui il mio pensiero parte dal fatto che viviamo il mondo come un luogo terribile e pieno di insidie e quando siamo con un bambino al fianco dobbiamo cercare di spiegarglielo senza spaventarlo. La chiave è sempre quella di trovare un’immagine per un’emozione precisa”.
Per Keret anche in politica le emozioni sono centrali: “sinistra e destra hanno visioni del mondo che partono da emozioni dominanti diverse: per la sinistra è l’idea dell’ingiustizia, quell’idea che c’è qualcuno a cui è stato fatto un torto o che io ne sia l’origine perché ho ricevuto qualcosa che non mi spettava. Tutto sommato è un’emozione negativa. La visione del mondo della destra proviene invece dalla paura: verrano i migranti e ci distruggeranno la nazione, sputeranno sulla nostra bandiera, l’Italia non è quella di un tempo… Anche questa è un’emozione negativa. Non credo che nessuna delle due però possa dare da sola una soluzione ai problemi. Un esempio molto chiaro è quanto accaduto negli Stati Uniti: dopo otto anni di Obama… Di colpo gli americani votano per Trump. Sono quindi stupidi? Sono masochisti? Se guardi bene capisci che ci sono problemi che i democratici non sono riusciti a risolvere. Il mondo della finanza che ha prodotto la crisi del 2008 ad esempio non ha pagato per le sue responsabilità. Per cui non puoi dirmi: i democratici sono buoni e Trump è cattivo. Non sono un relativista, preferisco Obama a Trump ma penso che non si possa guardare agli americani come dei pazzi zotici solo perché hanno votato il secondo”. Se si parla poi di politica israeliana, la paura, afferma Keret, ha un ruolo rilevante: “il pericolo esistenziale è al centro del discorso politico in Israele. È come un uomo morso dal rottweiler del vicino quando era bambino che da grande si trova ad aver paura del cane della vicina anche se è un pincher. La realtà in cui vive Israele oggi è completamente diversa dal 1948 con i paesi arabi vicini venuti a distruggerci o dalla guerra del Kippur del 1973: con una parte dei paesi arabi che ci hanno attaccato abbiamo firmato trattati di pace, altri sono occupati con problemi interni come il Libano e la Siria. Il nostro problema più presente sono i palestinesi che non hanno esercito, carri armati e aviazione e non possono essere considerati un pericolo esistenziale. Ma il timore del ‘vengono a distruggerci’ continua a rimanere nel pensiero collettivo israeliano ed è molto efficace per rieleggere persone come Netanyahu. La sua narrativa è quella legata all’identificare sempre un nuovo pericolo. In questa ottica ad esempio qualche anno fa aveva affermato che era stato il mufti di Gerusalemme a suggerire a Hitler la soluzione finale. L’obiettivo finale? Suggerire che la Shoah sia un concetto sviluppato dai palestinesi, dal mondo arabo. E in questo modo si insinua l’idea che una Shoah sia sempre vicina e possibile e che per combatterla ci voglia l’uomo forte, anche se è incriminato per corruzione. Non abbiamo il privilegio di scegliere qualcun altro”.
Rimanendo sul tema Israele, alla domanda se si senta sionista spiega: “Sono legato a questa terra, alla sua lingua, alle persone ma non condivido, se parliamo di sionismo, l’ottica nazionalreligiosa per cui l’ebraismo come religione rappresenta l’unica risposta. Non era la visione dei laici che hanno costruito questo Stato e sono contrario a ogni imposizione di identità”.
Questa identità in Keret è strettamente legata alla sua città: “Ci sono persone che vedono se stesse come newyorchesi. Io mi vedo come un telavivi. Spesso si parla di Tel Aviv come una bolla. Se lo è allora speriamo che cresca perché quel che ci trovi dentro è la capacità di gruppi diversi della società israeliana di vivere insieme quando altrove non riescono a farlo. Puoi vedere religiosi, omosessuali, arabi, mizrachim, ashkenazim che convivono nello stesso luogo. Non che sia una realtà sempre piena d’amore ma è piuttosto armonica”. Da cosa dipende quest’armonia? “La maggior parte delle persone che vive a Tel Aviv non ci è nata. Ed è vero anche per New York. Si sceglie di venire a vivere a Tel Aviv. E in questa scelta c’è una spinta attiva, imprenditoriale, positiva”. Ma i prezzi per viverci sono proibitivi. “Fa parte della scelta. Vivrai in un appartamento piccolo, senza macchina, ma sarai in una città anche geograficamente aperta, che si affaccia sul mare e accoglie tutti”. Nella sua casa di Tel Aviv, di questa città dai mille frammenti e dal respiro internazionale, prendono vita i racconti di Keret. Storie di un’identità multipla, israeliana, telavivi e allo stesso tempo cosmopolita.
Daniel Reichel, Pagine Ebraiche Dicembre 2019