Chi forma i formatori
Fermiamoci un attimo a riflettere sulla formazione, di cui tanto si è discusso recentemente durante gli Stati Generali dell’UCEI. Il tema è centrale, e certo non solo per l’ambiente ebraico. La società nella quale siamo immersi rivela di continuo carenze o vuoti di conoscenza piuttosto diffusi, anche su contenuti apparentemente radicati nella nostra identità e nel nostro tessuto culturale. Talvolta le mancanze sono sorprendenti e in netto contrasto con la scolarizzazione di massa di cui tutti siamo figli da tempo. Il fenomeno, di portata generale, è visibile soprattutto nelle giovani generazioni. È paradossale che in un mondo sempre più tecnologico e con una tecnologia sempre più sofisticata alla portata di tutti le conoscenze di base e le capacità di orientamento dei giovani appaiano spesso deficitarie. Paradossale ma forse non immotivato. È come se le grandi abilità tecniche dei ragazzi d’oggi fossero tutte ripiegate su se stesse in un gioco di pura abilità al computer che sfrutta le straordinarie possibilità dell’informatica ma indebolisce la loro capacità di cogliere la realtà con la propria mente, di costruire da soli una visione d’assieme del mondo che si trovano davanti.
Il terreno in cui questa fragilità culturale di base appare più pericolosa è quello storico, ove più facilmente si diffondono le false ricostruzioni e si generano stereotipi e pregiudizi pronti a trasformasi in tendenze escludenti, in ideologie del rifiuto.
È qui che occorre soprattutto innescare una strategia formativa. Il problema è come intervenire. Certo, non è vincente sovrapporre totalmente agli studenti un’immagine preconfezionata e una struttura informativa standardizzata. È opportuno guidarli con illustrazioni precise e attraverso letture circostanziate all’acquisizione di una graduale consapevolezza intorno ai fenomeni presi in esame. È importante metterli in guardia dal pericolo sfuggente e insinuante delle fake news, oggi sempre in agguato. È soprattutto indispensabile motivare adeguatamente ogni scelta didattica e interpretativa: i giovani devono sapere perché è importante affrontare e conoscere determinati argomenti, devono comprendere quali sono le loro possibili letture e perché alcune sono più attendibili e dunque preferibili rispetto ad altre. Una vera formazione, cioè, non può essere dogmatica e non può non essere critica. È essenziale quindi giocare a carte scoperte, indicare a ogni passo il significato e la meta del percorso che si è intrapreso.
A monte della metodologia della formazione vi è però una necessità che spesso è anche un problema: formare i formatori. Conoscere e insegnare sono due realtà co-essenziali e complementari, ma certo differenti. Non basta essere scientificamente padroni di una disciplina per essere capaci di insegnarla; per saperla trasmettere occorrono una adeguata preparazione psicologica sugli studenti, una padronanza di varie tecniche docimologiche, una abilità nel gestire le dinamiche di gruppo: competenze che è necessario acquisire e che purtroppo l’università italiana non si è mai curata di costruire e approfondire. Né esistono vere scuole statali di specializzazione legate al mestiere di insegnare. Certo, alcuni efficaci esperimenti in questo senso sono stati attuati vari anni fa: per esempio, in Piemonte i corsi dell’I.R.R.S.A.E. (Istituto regionale per la ricerca educativa) e la S.S.I.S. (Scuola di specializzazione all’insegnamento secondario). Peccato che come varie altre iniziative felici siano state presto abbandonate, perché da noi non si ritiene che i costi per la cultura e la formazione siano effettivamente paganti. Insomma in Italia, da sempre, nessun ente pubblico insegna davvero a insegnare; e da sempre i docenti si inventano sul campo un’autoformazione sperimentale, talvolta certo molto efficace ma sempre affidata alla creatività e all’inventiva individuali. Se ne parlava solo qualche giorni fa a Torino, in una conferenza del C.I.D.I. (Centro Iniziativa Democratica Insegnanti), insieme alla F.N.I.S.M. (Federazione Nazionale Insegnanti Scuola Media) una delle poche associazioni professionali di docenti che si occupano seriamente di formazione. Una domanda maliziosa ma forse fondata sorge spontanea: questa inefficienza cronica del nostro sistema è frutto di difficoltà contingenti o è un malfunzionamento voluto, funzionale alla permanenza di un appiattimento stabile e istituzionalizzato?
David Sorani