Corsivi non corsari
Nel merito dello sgradevole editoriale (corsivo?) di Dacia Maraini, che rispolvera diversi passaggi dell’antigiudaismo preconciliare, e sul suo tardivo tentativo di porre rimedio ad esso, laddove la toppa si rivela peggio del buco, non è che ci sia molto da aggiungere rispetto a quel tanto che è stato opportunamente (nonché coralmente) detto e ripetuto su questa ed altre pagine. Parrebbe quasi che a proseguire nella polemica si rischi di iniziare a sparare sulla Croce rossa – come si suole ragionare, a rigore di metafora, in questi casi. Non perché l’autrice in questione sia una figura indifesa ma perché l’obiettivo è, francamente, inconsistente. Mentre non lo sono le sue parole e la loro eco. C’è infatti di che riflettere – oltre al merito già sottolineato da chi ha preceduto, nei giorni scorsi, queste veloci notarelle – su alcune cose. La prima di esse è che quel breve, incongruo ed infelice testo sia comparso su uno dei maggiori quotidiani nazionali. Proprio perché tutte le testate d’informazione cartacea sono in crisi, e da tempo, una maggiore cura su quanto viene veicolato e pubblicato sarebbe – a dire poco – auspicabile. Alziamo da subito le mani e chiariamo che non si sta chiedendo nessuna censura: si tratta semmai di filtrare ciò che, spesso ad una lettura anche solo veloce, risulta inopportuno se non offensivo (se poi, invece, la singola testata si riconosce in esso, allora altro è il discorso: ognuno si assuma le sue responsabilità, punto e a capo). Uno degli elementi della decadenza pubblicistica è, tra gli altri, proprio il fatto che nella grande quantità di parole che vengono quotidianamente riversate su un pubblico sempre più distratto, poiché assediato da comunicazioni di ogni tipo, la verifica sulla qualità della scrittura – ed anche sulla sua pertinenza rispetto ad una coerenza editoriale – tende ad allentarsi se non a deflettere. Vuoi per contrazione dei tempi, vuoi per rarefazione delle risorse, vuoi anche perché in certi casi l’imperativo è il “riempire” una o più pagine. Così non va bene, poiché l’inflazione di offerta va a scapito non solo della sua qualità ma anche della credibilità di chi la ospita (in questo caso una testata giornalistica) e della disponibilità del pubblico a fruirla successivamente. Le eventuali lagnanze, che a volte si fanno poi piagnistei, sull’ipotetica lesione dei diritti di espressione autoriali (quand’essi non sono tali ma esclusivamente la maschera – l’involucro, se si preferisce – di una scrittura irriflessiva e irriguardosa di un’ampia platea di persone, in questo caso non solo ebrei ma anche cristiani che rifiutano l’antigiudaismo), vanno trattate per quel che sono, ossia reazione narcisistica di persone autoreferenziate. Non importa se il loro nome sia noto e diffuso. Anzi, semmai ne costituisce aggravante. E qui andiamo al secondo punto, invero assai più problematico: una parte della pubblicistica di vaglia, quella che dovrebbe fare “opinione”, è affidata ad autrici ed autori che, nel pronunciarsi frequentemente sull’universo-mondo, rivelano di non avere la sicura presa sui fatti né, tanto meno, della stessa articolazione del proprio giudizio. Non è una questione personale ma generazionale. Un paese sempre più anziano qual è il nostro, anchilosato, seduto su di sé e su una serie di mitologie intellettuali tanto esauste quanto stancamente ripetute, sembra avere appaltato da tempo la formulazione di giudizi sul presente ad un gruppo ristretto di persone, quelle che a volte per meriti oggettivi ma anche e soprattutto per “visibilità” pubblica, sono costantemente richiesti da giornali, televisioni e, in misura di molto minore (trattandosi di uno spazio ancora pluralistico), dalla radiofonia. Si tratta di un discorso delicato, che non riguarda solo l’incerto ambito dell’”opinionismo”. Se si vuole un riscontro secco, estremistico, al riguardo, basti osservare il proliferare dei talk-show televisivi, vero ricettacolo di queste dinamiche: poche decine di invitati, tra giornalisti e politici, ossia sempre i medesimi, chiamati a succedersi e ad avvicendarsi tra di loro, in un esercizio che finge di essere critico ed analitico quand’è puramente colloquialistico e civettuolo (nel senso da dare in tali casi alle due parole: parlare nel vuoto). L’invettiva, quando emerge, è quasi sempre parte dello “spettacolo”, poiché fa lievitare gli ascolti. In genere, alla comparsata si accompagna la promozione di un proprio prodotto librario. Spesso del tutto superfluo, con rispetto parlando. Siamo nell’età del merchandising e le parole si perdono nella falsa pienezza della cacofonia. Un tale precedimento sta interessando anche quei canali tematici che dovrebbero invece coltivare un pluralismo espressivo sulla valutazione dei loro oggetti di riflessione. Un esempio indice, cartina di tornasole al riguardo, è l’impossibilità di affrontare nei mezzi di comunicazione i temi legati ad Israele senza che ciò si appaltato a poche, prevedibili figure di riferimento. Spesso competenti in alcuni campi ma il più delle volte completamente estranee al soggetto in questione. È una questione di merito (cosa si dice) ma anche di metodo (come lo si dice e sulla scorta di quali effettive competenze si è titolari di un’autorevolezza di giudizio). La comunicazione pubblica, così facendo, sembra volere andare incontro a presunte aspettative del grande pubblico, che in realtà essa stessa alimenta a proprio beneficio. In una sorta di conformismo – il quale a volte trascende, come nel caso Maraini, nel pregiudizio – che è tutto fuorché informazione e comunicazione. Non di meno c’è un altro effetto di ritorno, che è l’esclusione di un’ampia coorte generazionale di studiosi, pubblicisti e comunicatori, dalla possibilità di rivolgersi ad un pubblico che non sia già quello abituale. Se la comunicazione è circolazione di idee e opinioni, siamo qui diversi passi prima da qualsiasi indirizzo aperto al confronto (che non sia da subito scontro a parola armata, come invece avviene nei talk-show). Il tutto si incontra poi con la presenza di accanite tifoserie, che sul web, come anche sui mezzi di comunicazione cartacei e televisivi – laddove però non possono intervenire immediatamente – vanno a cercare esclusivamente riscontri al loro pregiudizio e nulla d’altro. Un’ultima notazione, tra le molte possibili, ed è quella che rimanda al “Gesù sardina”: l’accostamento di un movimento di opinione a una figura storica che accompagna le vicende dell’umanità da due millenni, è quanto di più bizzarro si potesse fare. Segno anch’esso, da parte dell’autrice, di una perdita di senso delle dimensioni, di mancanza di proporzioni, fors’anche di cognizione di quanto andava scrivendo. Un bel tacer non fu mai detto, in buona sostanza. Detto questo, se Yeshua è (stato) una sardina, cosa fu Moshé? Un’aringa o piuttosto un tonno? Forse un nuovo corsivo potrebbe illuminarci (!?) sul rapporto tra il settore ittico, l’opinione pubblica e le tradizioni di ordine morale, culturale, religioso e spirituale. O forse no. Meglio lasciare stare.
Claudio Vercelli
(29 dicembre 2019)