Sogno e realtà dello Stato ebraico
Mi è capitato più di una volta di citare l’opera di Michael Brenner, Israele. Sogno e realtà dello Stato ebraico (Donzelli, Roma, 2018) perché questo lavoro si differenzia sensibilmente da altre storie dello Stato d’Israele, magari serie ed approfondite ma caratterizzate un po’ tutte, quali più quali meno, da una specie di “provvidenzialismo”, che fa sì che la storia dello Stato ebraico appaia segnata da una sorta di necessità; non che non vengano messe in evidenza le difficoltà e i pericoli che il movimento sionista prima e poi lo Stato d’Israele hanno attraversato. Ma in genere si ha l’impressione, leggendo queste storie, che, una volta celebrato il congresso di Basilea, l’esito successivo non poteva non essere quello che è stato.
Il lavoro di Brenner è, al contrario, caratterizzato da una forte carica problematica. Non si tratta di una problematicità di principio, una sorta di scetticismo di fondo sulla vicenda stessa del sionismo, prima e dopo la fondazione dello Stato. È piuttosto un atteggiamento di metodo, l’atteggiamento dello storico che sa che, ad ogni passo, la storia ha imboccato una certa direzione ma che esistevano ed esistono sempre altre direzioni possibili, e che quelle strade non siano state imboccate niente toglie al fatto che, in quella fase storica, esse fossero presenti ed avessero una loro forza.
Non si tratta solo di mettere in evidenza le grandi difficoltà che il progetto sionista incontrò nel mondo ebraico prima di riuscire ad essere maggioritario. Brenner mette efficacemente in evidenza come, all’interno stesso del sionismo, fin dall’inizio fossero presenti più opzioni, non riducibili esclusivamente al contrasto che si determinò con la nascita del sionismo revisionista di Ze’ev Jabotinsky.
Brenner sottolinea che questa possibile pluralità di opzioni si mantenne anche dopo la nascita dello Stato e si accentuò con la guerra dei Sei giorni che pose lo Stato ebraico di fronte a problemi nuovi: non si trattò più soltanto di affermare la necessità dello Stato, ma di definire che cos’è questo Stato, quali sono i suoi confini, quale la sua missione.
Questa problematicità si accentua nel penultimo capitolo, in particolare nei due paragrafi “Israele all’estero” e “Israele immaginato”, che approfondiscono due aspetti di solito trascurati. Il primo è l’esistenza, crescente, di presenze israeliane (e non solo ebraiche) fuori d’Israele, in particolare in luoghi impensabili fino a non molti anni fa, come Berlino, dove si è formata una rilevante colonia israeliana che ha una sua funzione nella vita culturale ed economica della capitale tedesca. Non è il solo caso, Brenner ne indica altri, ma la sua apparente paradossalità ne accentua l’interesse.
L’altro paragrafo di particolare interesse è costituito da “Israele immaginato”. Non si tratta tanto d’indicare soluzioni alternative all’insediamento ebraico in Terra d’Israele: di queste possibili opzioni, di cui si era parlato prima della fondazione dello Stato, Brenner ha parlato nel corso dei capitoli precedenti. Ora, invece, lo storico tedesco espone ed analizza una serie di ipotesi, di origine letteraria, che propongono un insediamento ebraico in luoghi diversi da quello nel quale si è storicamente affermato.
Si tratta di un’ampia rassegna, di cui in questa sede si possono citare soltanto alcuni casi tra i più noti, come Neuland di Eshkol Nevo, che ha immaginato un nuovo Israele organizzato sulla base dei principi sionistici e collocato in Sudamerica; oppure la fantasia di Michael Chabon che, partendo da un iniziale spunto che ha avuto una base storica, parla di un insediamento ebraico in Alaska; oppure il più suggestivo di tutti, quello sviluppato da Philip Roth, che nella sua Operazione Shylock elabora la proposta di un nuovo “diasporismo”, basato sull’idea che, per evitare un conflitto distruttivo con il mondo arabo, gli israeliani di origine ashkenazita dovrebbero tornare nelle loro patrie d’origine per riprendere la vita interrotta sia dall’affermarsi del sionismo che, ancor più, dalla Shoah, mentre gli ebrei sefarditi resterebbero in Israele dove potrebbero trovare un terreno d’intesa con il mondo arabo.
Infine il paragrafo più originale e per certi aspetti più sconvolgente, il terzo (“Israele perduto, Israele ritrovato”) dove si documenta l’esistenza, in via d’espansione, di un rilevante numero di comunità che, nei luoghi più improbabili, rivendicano la loro origine ebraica e quindi l’acquisizione dei diritti che spettano agli ebrei in base alla legge del ritorno. Quello che sbalordisce è l’ubicazione di questi nuclei di popolazione che rivendicano la loro origine ebraica: dal Ghana all’Uganda, dal Messico all’India, dalla Nuova Guinea all’Etiopia, il motivo delle «tribù perdute» di Israele si arricchisce di sviluppi, che in certi casi pretendono di appoggiarsi perfino all’esame del DNA.
Valentino Baldacci
(2 gennaio 2020)