Anni Venti, analogie e diversità
Benvenuti nel 2020. Un’interessante intervista a Michael Waltzer comparsa il 2 gennaio su Repubblica (“Così torniamo agli anni Venti dei fascismi”, di Anna Lombardi) ci porta nel vivo di un dilemma sul nostro futuro: siamo destinati a calcare le orme del secolo passato e a trascinarci nel corso del decennio verso il baratro dei regimi autoritari, della sconfitta dei diritti democratici, di nuove guerre all’orizzonte? Il politologo ebreo americano nota analogie di fondo tra le situazioni successive al primo conflitto mondiale e quelle attuali: lo stesso populismo nazionalistico che animava il fascismo sociale, la stessa inquietudine nell’affrontare i grandi cambiamenti. Credo che sia possibile andare oltre e cogliere altre non meno visibili similitudini tra i due periodi. Una diffusa, crescente sfiducia nella politica intesa come trattativa, incontro, mediazione; una esasperazione, invece, dell’antagonismo e del conflitto nella ricerca del risultato tangibile a vantaggio dei gruppi più forti. Il bisogno di legarsi a un individuo emergente, dalla personalità carismatica, capace di piacere alle folle e di guidarle; il disprezzo, per contro, della conduzione collettiva e condivisa. Soprattutto, a livello di massa, una scarsa propensione all’approfondimento unita a una serpeggiante ignoranza e all’esigenza di poter contare su slogan e su risposte facili, vuote ma efficaci.
Se però, al di là di questi paragoni fondati ma anche un po’ generici, volessimo davvero spingerci più in là nel confronto, ci accorgeremmo di notevoli diversità, e temo non a vantaggio degli anni che stiamo vivendo. Gli anni Venti del secolo scorso sono stati, è vero, il terreno delle prime affermazioni di fascismo e nazismo e l’incubatrice dello Stato totalitario, ma hanno pur sempre visto la nascita e lo sviluppo della democraticissima Repubblica di Weimar con la sua grande fioritura culturale e le sue avanguardie artistiche; hanno conosciuto l’azione politica di personaggi di straordinaria levatura intellettuale quali Gobetti, Gramsci, Matteotti; hanno vissuto la fase drammatica dell’estremo sviluppo e dell’involuzione della rivoluzione russa naufragata dopo il 1927 nella tirannia staliniana. Temo che i tempi attuali siano ben al di sotto dei livelli di consapevolezza socio-politica, di partecipazione collettiva allora raggiunti. La nostra è un’epoca di egoismi individualistici e di livori personali, scevra ormai di ideologie condivise e di autentici slanci ideali; anche i movimenti e i partiti politici vivono solo di tornaconti privati e di calcoli utilitaristici, non certo di visioni del mondo e di progetti sociali e culturali collettivi.
D’altra parte, visti gli esiti distruttivi prodotti alla lunga da quel focolaio di violenti contrasti che furono gli anni Venti (i totalitarismi e l’annichilimento della libertà umana, un nuovo conflitto mondiale con più di 50 milioni di morti, il genocidio programmato e in gran parte realizzato del popolo ebraico), dovremmo forse essere soddisfatti della pochezza attuale, incapace di elaborare inquietanti visioni del futuro e quindi di condurci verso immani tragedie? Non credo che l’assenza di progetti sia la risposta adeguata: la vuota dimostrazione di forza muscolare o l’insipienza arrendevole tipiche dei nostri giorni stanno animando nuovi allarmanti venti di guerra. Non sarà l’assenza di idee e di programmi a salvarci da possibili scenari oppressivi, ma la consapevolezza comune dei valori democratici e dell’identità occidentale. La Resistenza dell’Europa al nazismo iniziò quando un certo Winston Churchill chiamò gli inglesi ad opporsi in nome della libertà e della dignità umana.
David Sorani