Controvento – Identità d’esilio
“Non sfruttare né opprimere lo straniero, perché voi stessi foste stranieri in Egitto”. Questi versetti dell’Esodo mi sono sempre stati presente, forse perché vengo da una famiglia cacciata nel secolo scorso dalla Romania e dalla Polonia e prima da chissà dove. I miei genitori non si sarebbero certo definiti esuli, si sentivano ebrei senza necessità di una patria, o meglio la cui patria non era territoriale ma religioso-culturale: la Patria era l’identità ebraica, che loro stessi non avrebbero saputo forse definire, non essendo osservanti, ma che avevano ben chiara in mente come riferimento etico, come adesione ai principi della Torah, come aspirazione al ritorno a Eretz Israel – un ritorno che però non si era concretizzato in una residenza fisica, ma solo in un passaporto, in una idea di appartenenza.
Nel nostro lessico famigliare, la parola “straniero” non esisteva, o almeno non ricordo di averla sentita pronunciare, e credo che questo sia stato il principio ispiratore del concerto per il Giorno della Memoria (il 23 gennaio prossimo all’Auditorium Parco della Musica), “Là dove giace il cuore: note e parole d’esilio”.
Dopo sei concerti dedicati alle musiche scritte e suonate nei campi di concentramento, ho sentito la necessità di affrontare il tema della Shoah da un altro punto di vista, quello dei sopravvissuti, per i quali, anche nei più fortunati dei casi, c’è stato un altro tipo di morte: la perdita della propria vita precedente, casa, amici, famiglia, ricordi, lingua madre, status sociale. E soprattutto la consapevolezza di non aver nulla a cui poter tornare. Perché è questo che differenzia il nostro esilio da quello della maggior parte degli altri popoli. L’esule sogna la sua Patria, spera un giorno di potervi far ritorno. Per i sopravvissuto alla Shoah no, dietro di lui c’è terra bruciata, e l’unico ritorno possibile è quello a una Gerusalemme ideale che, almeno fino al 1948, non era un luogo fisico, ma un luogo dell’anima. L’esilio ebraico è un esilio identitario, è un esilio metafisico al quale partecipa la Shekhinah, manifestazione del divino.
È lecito, mi hanno chiesto in molti, paragonare questo nostro esilio identitario ai molteplici esili che hanno afflitto gran parte dell’umanità? E dove tracciare la linea di demarcazione tra deportazione, fuga per persecuzioni politiche o religiose, o semplicemente per fame e miseria?
Il mio punto di vista nella preparazione di questo concerto può essere riassunto dalle parole di Joseph Roth in Ebrei Erranti: “Al viandante (il mondo vile) non domanda dove sta andando, ma da dove viene. Eppure al viandante importa la meta, non la provenienza”.
Partendo dall’identità ebraica come identità di/in esilio ho aperto la riflessione a tutti gli esili, indipendentemente dalla causa che li ha generati, per guardare ai sentimenti comuni all’umanità dolente di nostalgia, alle difficoltà di reinventarsi una vita, all’umiliazione di essere considerati inferiori, quando non pericolosi e usurpatori. Un tema che oggi per me è un imperativo etico.
I Concerti della Memoria richiedono un gigantesco lavoro di ricerca. Sia per la ricerca musicale, realizzata con Cristina Zavalloni, cantante e musicologa a mio giudizio eccezionale, ma soprattutto donna di straordinaria sensibilità e generosità; sia per gli arrangiamenti, che sono stati scritti ex-novo da Giuseppe Bassi, Vince Abbracciante e Seby Burgio, arricchendo di vitalità e una sensibilità contemporanea partiture a volte molto semplici. Ma soprattutto per i recitativi che inframmezzano la musica e conferiscono significato alle scelte musicali. Ho letto decine, se non centinaia di opere di scrittori e poeti in esilio, durante gli otto mesi di preparazione, e una volta selezionati i brani, c’è stata la difficoltà di sfrondare e scegliere quelli più significativi, ma anche quelli che consentissero di creare uno svolgimento che non è cronologico ma ha comunque un senso compiuto. È stato un lavoro lungo e faticoso, che mi ha dato moltissimo.
Avremo in scena un centinaio di persone, tra cantanti, guest star nazionali e straniere, musicisti, coro, attori del calibro di Manuela Kustermann e Alessandro Haber, e persino un cameraman e due ballerini – non invidio il regista Angelo Bucarelli che dovrà muovere questo piccolo esercito con pochissime prove, incrocio le dita e cerco di non pensarci. L’unico dispiacere è che tanta fatica si esaurisca in una sola serata. Ci saranno è vero le riprese televisive – in onda su Rai5 il 3 febbraio alle 22.15 e successivamente sul nostro sito: www.memoriainscena.it. Ma mi sarebbe piaciuto che questo concerto, come del resto i precedenti, tutti frutto di un grande lavoro, e soprattutto di un grande entusiasmo, potessero essere portati in giro per l’Italia, anche in versione ridotta, e magari all’estero. Non ci siamo finora riusciti, probabilmente perché noi organizzatori non siamo professionisti del settore e non abbiamo quindi la rete di contatti necessaria.
Ogni anno arrivo allo spettacolo assicurando me stessa e quelli che mi circondano, che questo sarà l’ultimo: troppo lavoro (tutto su base di volontariato), troppi rischi anche economici (di solito io e Marilena Francese, che produce gli spettacoli insieme a me, ci rimettiamo di tasca di nostra). Troppo stress, perché fino all’ultimo ci sono incognite, capricci di primedonne, gelosie di chi vorrebbe più visibilità, emergenze. E invece ogni anno ci ricasco, perché è un lavoro appassionante, creativo e intellettualmente stimolante. E perché sono circondata da professionisti che sono con noi fin dal primo concerto “I violini della speranza” e ci credono e ci mettono l’anima, un piccolo gruppo che si è cementato negli anni. Non solo noi organizzatori e i nostri musicisti, ma Rai Cultura con la sua macchina produttiva eccezionale nonostante le difficoltà in cui la Tv pubblica si muove, e ringrazio in particolar modo il direttore Silvia Calandrelli, e l’Accademia di Santa Cecilia, con il presidente Michele Dall’Ongaro che ogni anno ci segue personalmente e il segretario artistico -ma in realtà deus ex-machina, Mauro Bucarelli e Laura Bognetti della produzione che ci sostengono con la loro straordinaria professionalità ed esperienza. E poi ClosetoMedia, l’ufficio stampa di Elisabetta Neuhoff, e Euroforum, l’agenzia di comunicazione di MariaLuisa Migliardi, e l’editore De Luca che sono con noi fin dalla prima edizione. Per non parlare dei miei più stretti collaboratori, Elisa Rapisarda, Luisa Capelli e Sandro Ghini, che mi affiancano lavorando anche le notti e i giorni festivi, e ai quali non sarò mai abbastanza grata per la loro discreta ed efficiente presenza.
E ovviamente le istituzioni, dall’UCEI che promuove il concerto, alla Presidenza del Consiglio e la Presidenza della Repubblica, le Fondazioni e i numerosi donatori privati e gli sponsor che ci seguono di anno in anno, alcuni dei quali anonimamente.
Sul tema dell’esilio ho trovato da parte di tutti un grandissimo entusiasmo. Segno che in questo mondo che sembra arroccarsi sempre di più su posizioni nazionaliste e razziste (e purtroppo il razzismo è l’esito inevitabile dei nazionalismi che si fondano sulla distinzione tra Noi e gli Altri), c’è ancora spazio e sensibilità per i valori umani e voglia di riscatto dall’egoismo becero di chi si sente superiore solo perché ha avuto la fortuna di nascere nel benessere.
Viviana Kasam
(13 gennaio 2020)