Pagine Ebraiche – L’intervistaRosy Russo: “Lotta alle parole ostili, una sfida educativa comune”
“Noi nasciamo con quest’inclinazione ad essere feroci: i social amplificano. Ma la nostra è una sfida educativa. Se tu insegni che certe cose non si fanno, allora non si fanno”.
È con queste sue parole che il Corriere della Sera presenta Rosy Russo, inserita tra le Cinquanta donne del 2019, insieme a scienziate del calibro di Amalia Ercoli Finzi e alla Testimone della Shoah e senatrice a vita Liliana Segre, per restare in Italia, o alla presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen, al premio Nobel per la letteratura Olga Tokarczuk o Greta Thunberg. Come quest’ultima Rosy Russo è definita “attivista”, e non sarebbe possibile una definizione più appropriata per questa triestina quasi cinquantenne che, dal nulla, ha creato Parole O_Stili.
Un po’ movimento dal basso, un po’ community online, Parole O_Stili è un progetto che ha l’ambizione di ridefinire lo stile con cui stare in rete, nato dall’esasperazione di una grande sognatrice che non pare capace di concepire che i suoi sogni possano restare incompiuti. Tenace, determinata, pragmatica, Rosy Russo con il suo Manifesto ha l’obiettivo di responsabilizzare ed educare gli utenti del web. Vuole portarli a scegliere forme di comunicazione non ostile, organizzando iniziative di sensibilizzazione e formazione che si rivolgono a tutti, partendo dall’idea che “virtuale è reale”: che l’ostilità in Rete ha conseguenze concrete nella vita delle persone. Era poco prima di ferragosto, tre anni e mezzo fa, e Rosy Russo ne aveva abbastanza dell’aggressività che vedeva montare in rete. Per una persona che si autodefinisce “Consulente di comunicazione, creativa dalla testa ai piedi, un po’ copywriter, un po’ social media manager, un po’ docente, un po’ consulente” lo spazio digitale è lo spazio del quotidiano, un luogo dove abitare bene è essenziale.
Starci male impensabile.
Quindi hai provato a cambiare le cose.
No, non subito, in realtà. Sono quotidianamente esposta a parole ostili per il lavoro che facciamo in agenzia (è fondatrice di SpazioUAU, agenzia di comunicazione e marketing) e quell’anno era davvero troppo. Così ho pensato di provare a chiedere ad alcuni amici se ero solo io a non poterne più di quel modo di vivere la rete o se anche loro facevano fatica. Ho scritto a una settantina di persone, sotto ferragosto, subito prima di staccare e andare in vacanza.
E cosa è successo?
Al rientro mi sono resa conto subito che la risposta era stata tale da non poter restare nell’ambito della conversazione privata, tra amici e colleghi. Uno soltanto mi aveva scritto di non essere interessato, e avevo ricevuto invece grandi confidenze su quanto soffrissero anche loro sul tema del digitale.
Avete deciso subito di attivarvi?
C’è stato un fittissimo scambio di mail, telefonate, messaggi… sino a quando ho lanciato la richiesta di segnalarmi tre cose da cui ripartire per vivere meglio la rete. Poi noi, in agenzia, abbiamo fatto la sintesi. Ne sono nati nove principi, ma abbiamo pensato che se doveva essere un progetto per la rete non potevamo non costruirlo con la rete. Così abbiamo aperto una pagina su Facebook. Pubblica, aperta a tutti, dove abbiamo presentato ciò a cui eravamo arrivati.
La risposta è stata positiva?
Più che positiva: abbiamo ricevuto in poco tempo migliaia di contributi. Con una ulteriore sintesi siamo arrivati a 24 principi. Era la fine dell’anno.
A gennaio li abbiamo rimessi in rete per farli votare, e abbiamo salvato i primi dieci.
Il manifesto…
Sì, e il 17 febbraio abbiamo presentato i nostri dieci punti, il nostro Manifesto della comunicazione non ostile. Abbiamo voluto farne un grande evento, e anche se non avevo mai gestito prima cose di quelle dimensioni siamo riusciti ad avere con noi diversi personaggi di peso, che ci hanno aiutati moltissimo ad attirare l’attenzione su quello che stavamo facendo.
Chi c’era, con voi?
Tantissime persone, in realtà, quella community che si era formata sia online che offline, e anche qui in città, a Trieste. È venuto Gianni Morandi, che in rete ha un ruolo positivo, è un influencer importante. C’erano Enrico Mentana e Laura Boldrini… Pensavamo che fosse il nostro punto di arrivo.
E invece parrebbe essere stato solo l’inizio.
Sì, ma non ce lo aspettavamo. Ci eravamo resi conto che la viralità del manifesto ci avrebbe portati a numeri molto alti, tanto che già a novembre, quando avevamo pensato di fare un primo evento, abbiamo deciso di rimandare, proprio per organizzare le cose un po’ più i grande, con calma. Siamo partiti in una settantina, ci siamo trovati con un migliaio di persone.
Ma non pensavi vi avrebbero seguiti così attivamente.
No, per nulla, davvero non me l’aspettavo. Si trattava di una cosa che avevamo fatto per noi, uno strumento per aiutarci a ridefinire i confini, per stare bene in rete. Per di più per sei mesi, in agenzia, da me, avevamo fatto doppio lavoro, senza sponsor importanti, ed eravamo tutti felicissimi al pensiero di poter tornare a fare il nostro lavoro, il 18 febbraio.
E invece fra poco sono tre anni.
E di questo periodo parli sempre al plurale.
Certo, sì, perché non ho mai lavorato da sola. Ho lanciato un seme al momento giusto, evidentemente era qualcosa che stava maturando e mi hanno seguita in tanti. Da subito. Ci sono in primis le persone che lavorano con me in ufficio, che fanno da sempre tutto il lavoro di base, dalla segreteria alla comunicazione, e hanno partecipato davvero in tantissimi. Abbiamo condiviso decisioni, ragionamenti, materiali che potevano essere utili e interessanti per quello che cercavamo di costruire.
“I Settanta”… in ambito ebraico ha una risonanza importante, erano i primi traduttori in greco della Bibbia.
Sì, è vero! Noi siamo diventati quasi subito un centinaio… È un gruppo molto bello, e molto affiatato. E una delle cose più belle è che tante persone chiamano, ci scrivono, chiedono come possono dare una mano.
La condivisione è la nostra forza: coloro che partecipano alla elaborazione del manifesto, e sono stati davvero tantissimi, sono i primi che se ne fanno promotori.
Non era un problema solo tuo, allora.
Decisamente no, era un problema di tutti, come il Manifesto è di tutti. È stato un movimento dal basso che lentamente ha fatto partire qualcosa di grande.
Qualcosa che non è rimasto “solo” una pagina su Facebook.
No, proprio perché “Virtuale è reale”, come dice il primo punto del Manifesto! Il primo mondo che ci ha subito coinvolto moltissimo è stato quello della scuola, con insegnanti che chiedevano materiali, o come potevano usare il Manifesto in classe. Così ci siamo attivati e già nel maggio dello stesso anno abbiamo organizzato “Condivido”, a Milano. Ha partecipato l’allora ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli, ed è stato l’inizio della collaborazione con il Miur.
Avete creato voi dei materiali didattici?
Sì, le schede sono tutte scaricabili gratuitamente, e sono già più di 200. Abbiamo rilanciato la palla agli insegnanti, chiedendo loro cosa avrebbero fatto, per dedicare un’ora di lezione al Manifesto. Abbiamo creato una griglia di domande prestampata, chiedendo che fonti avrebbero usato, come avrebbero insegnato i principi, e poi raccolto le risposte.
Ha funzionato, parrebbe.
Sono state scaricate più di 70mila volte! Noi non sappiamo chi le usa, ma spesso riceviamo i risultati del lavoro in classe: sono nati video, canzoni, cose davvero bellissime, a volte emozionanti. E sono classi di tutte le età, dalla materna alla fine delle superiori. Ci chiamano a volte per chiedere se abbiamo tempo di collegarci, magari via skype, per fare domande, o per mostrare il loro lavoro. È qualcosa di davvero coinvolgente, ed entusiasmante, ogni volta.
Come fate a non perdere il controllo di un progetto che cresce così rapidamente?
Un upgrade del sito permetterà a breve di caricare il risultato del lavoro che viene fatto sul manifesto. E c’è sempre un controllo, soprattutto per la parte didattica, e per la formazione che abbiamo iniziato subito a sviluppare. E proprio per dare delle garanzie abbiamo un team che abbiamo chiamato “Academy”, che riunisce le persone che hanno lavorato e lavorano con Parole O_Stili. Sono docenti universitari, pedagogisti, esperti di comunicazione, di digitale, a volte blogger o influencer che conoscono lo strumento e condividono i nostri principi.
Una rete notevole.
Sì, un po’ sono stata fortunata, un po’ in effetti ho attinto alla rete di contatti che ho sviluppato col mio lavoro, anche in progetti precedenti. E poi ovviamente più funziona e più veniamo ascoltati, abbiamo visibilità e credibilità.
E sono arrivati i premi e i riconoscimenti…
Sì, anche, e fanno piacere, soprattutto la medaglia del Presidente della Repubblica, ma sono importanti soprattutto le collaborazioni, in primis quelle con le università, a partire dalla Cattolica, che ci appoggia sin dall’inizio, ma anche con Padova, Urbino, Trieste. E con il Miur. Tutto quello che facciamo è sempre condiviso e scritto a più mani, è la cosa più importante.
Perché in effetti non vi siete potuti fermare, poi.
No… dopo il lavoro sulle schede didattiche in molti ci hanno chiesto di approfondire tematiche specifiche insieme a esperti dei relativi settori.
La prima declinazione del manifesto è nata un po’ da un mio interesse per la comunicazione politica, che mi pare da sempre abbia una influenza enorme su tutti noi. Ho coinvolto più di trenta comunicatori del settore, molti spin doctor dei politici, affidando a ciascuno di loro un principio, da commentare alla luce della sua esperienza. Il Manifesto della politica è stato presentato in Senato.
Un bel salto, in pochi mesi. Poi?
Nel febbraio 2018, per il primo compleanno del Manifesto, abbiamo presentato la declinazione per le istituzioni, su cui eravamo stati molto sollecitati. L’occasione è stato un convegno internazionale, grazie alla collaborazione col ministero che si occupava
di Pubblica Amministrazione. Poi nel giugno 2018 è arrivato quello per le aziende, nato dai percorsi formativi che nel frattempo abbiamo iniziato ad offrire, lavorando con diverse multinazionali.
Una scelta fatta per arrivare al mondo degli adulti?
Anche, sì. Sono spesso grandi realtà, in cui ci rapportiamo sia coi top manager – hanno una doppia responsabilità – che con gli operai, a seconda delle situazioni. Sono corsi trasversali, ci rivolgiamo a chi lavora in aziende che hanno una propria social media policy ma anche a realtà in cui il problema non viene affrontato in maniera strutturata. Senza mai dimenticare che le stesse persone sono spesso anche genitori di ragazzi che stanno a loro volta sui social. Si ragiona di fake news come di personal branding, o di cyber bullismo, che è sempre più diffuso.
Si torna sempre ai giovani.
Non si può prescindere! I ragazzi sanno che virtuale è reale, ma gli adulti, gli insegnanti, ancora faticano. Per educare i giovani bisogna educare prima chi si occupa di loro. I docenti sono ancora convinti che tutto quello che sta nel cellulare deve stare fuori dalle classi, per esempio. Così abbiamo organizzato un evento in Cattolica, a Milano, cui hanno partecipato più di 1500 insegnanti, di ogni ordine e grado. Abbiamo offerto più di 40 laboratori, tutti gratuiti, gestiti dai nostri collaboratori, dal gruppo dell’Academy, da professori universitari che ci seguono da tempo. Era inizio 2018.
Non vi fermate più.
In effetti… a dicembre 2018 siamo andati al Sud, che è una realtà difficile per questi temi, e spesso non abbiamo i fondi per intervenire. A Bari abbiamo ripetuto l’esperienza milanese, ma aprendo anche ai ragazzi. E ragionando sullo sport, un altro lavoro che ho trovato molto coinvolgente: abbiamo interpellato più di 200 persone tra atleti, giornalisti sportivi, responsabili delle associazioni, Coni, giornalisti sportivi… c’erano i direttori delle tre testate giornalistiche sportive nazionali. Sempre con la stessa modalità: abbiamo affidato loro i nostri dieci principi, chiedendo se volevano darci una mano.
Il linguaggio dello sport spesso è più che ostile.
Sì, soprattutto nel calcio, ma non solo. E proprio per questo abbiamo voluto coinvolgere tutto il mondo dello sport, non solo i calciatori, ma gli arbitri, le ragazze della pallavolo, dall’atletica al karate fino agli sport meno noti. È importante anche non essere troppo specifici, devono essere principi il più possibile universali, altrimenti perdono di forza.
E con lo sport avete di nuovo coinvolto i giovani, giusto?
Sì, assolutamente, ma contemporaneamente stavamo lavorando per i piccolissimi, perché abbiamo ricevuto mail di insegnanti delle scuole dell’infanzia che chiedevano materiali, raccontando come i primi problemi nascano già a quell’età.
Non è presto?
Una maestra del primo anno della primaria mi ha raccontato come spesso i genitori che vengono a prendere i bimbi che segue invece di dedicare loro del tempo, abbracciarli, farsi raccontare, li prendono in braccio con il telefono nell’altra mano e vanno via quasi senza salutare… I bambini che parlano tardi e parlano poco sono sempre di più, e c’è una grande responsabilità dei genitori, che spesso lasciano loro in mano un tablet invece di raccontare una storia, o che sono loro stessi troppo spesso “dentro” lo smartphone.
A chi vi rivolgete, in questo caso?
Il manifesto per i piccolissimi ovviamente ha come obiettivo chi sta vicino a loro, in modo che siano consapevoli. Si arriva ai piccoli passando per gli adulti, e prendiamo due piccioni con una fava… Poi abbiamo sviluppato il Manifesto per la scienza, presentato lo scorso giugno.
Perché per la scienza?
Perché se ne sentono di tutti i colori, basta pensare al terrapiattismo… qui a Trieste abbiamo la Sissa, e nel 2020 la città sarà la capitale europea per la scienza. E poi come dicevo più passa il tempo più è facile, veniamo ascoltati. E riusciamo con più facilità ad aprire collaborazioni con aziende che ci sostengono: si sviluppa con loro uno strumento – come il metro che misura la sensibilità sul cyber bullismo, che abbiamo fatto con Ikea – e poi lo si ripropone.
Recentemente avete coinvolto anche i sindaci, giusto?
Si tratta di un movimento che sta crescendo: avevamo già alcune firme, poi qualche settimana addietro sono stati Sala e Appendino, sindaci di Milano e Torino, a firmare insieme, e si sono impegnati a organizzare iniziative che coinvolgeranno tutta la città. Abbiamo avuto anche i sindaci della Basilicata, tutti, che si sono ritrovati per firmare, e il presidente dell’Anci, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, che ha invitato tutti i sindaci d’Italia a mettere la loro firma (che deve sempre passare per l’approvazione della Giunta comunale, ovviamente) e a impegnarsi attivamente per la diffusione e l’applicazione del Manifesto.
Un successo dopo l’altro. Non avete avuto difficoltà?
Qualcuna ovviamente sì, soprattutto all’inizio quando le nostre iniziative erano poco conosciute. Hanno tentato all’inizio di affibbiarci un’etichetta che però è durata poco, fortunatamente. In alcuni ambienti della comunicazione si parlava di “buonismo cattolico” e con un po’ di scherno ci chiamavano “quelli del manifesto dell’oratorio”. Si è visto però subito che stavamo coinvolgendo persone che provenivano da storie e contesti molto diversi tra di loro. Per di più il manifesto è scritto volutamente in prima persona, non ci sono lezioncine: chi firma si assume la responsabilità delle proprie scelte e delle proprie azioni.
E adesso?
Adesso abbiamo davanti a noi un progetto ambizioso e urgente: uno strumento per riflettere su razzismo, accoglienza, xenofobia, omofobia, misoginia, handifobia e antisemitismo. Sarà la prossima declinazione, un Manifesto per l’inclusione (ma il titolo è provvisorio). Insieme all’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che ci ha sollecitati sull’argomento, abbiamo già iniziato a confrontarci, e stiamo lavorando sul progetto, che coinvolgerà associazioni, enti e istituzioni, aziende e comuni cittadini e verrà presentato ufficialmente durante il nostro prossimo evento annuale di Parole O_Stili.
C’è già una data?
Sì, dopo quel primo appuntamento nel febbraio 2017 abbiamo organizzato ogni anno un incontro qui a Trieste.
È un’occasione in cui tiriamo le fila di quello che abbiamo portato avanti nei dodici mesi precedenti. Gli altri incontri sono più legati a qualcosa che ci viene richiesto, proposto, a qualcosa in cui veniamo coinvolti, ma qui raccontiamo il lavoro fatto.
E qui presentiamo le novità più importanti. Quelle a cui teniamo particolarmente. Dato che sarà un Manifesto in cui crediamo molto abbiamo deciso di presentarlo in quell’occasione.
L’appuntamento è per l’8 e il 9 maggio prossimi, a Trieste.
Ada Treves, Pagine Ebraiche Gennaio 2020