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L’elefante di Carlo Magno

cavaglionI bambini piccoli, si sa, amano le storie degli animali. Gli adulti consapevoli, si sa, vivono con disagio l’approssimarsi del Giorno della Memoria. Le perplessità crescono misurando, lo notava qui Bidussa, la scarsa incidenza che i nostri discorsi sul dovere di ricordare esercitano nella lotta contro il razzismo (che non è solo antisemitismo, come ha fatto bene a ricordarci Liliana Segre). Da quando ho saputo che sarei diventato nonno, ogni gennaio faccio sogni ad occhi aperti, che fatico a collegare fra loro. Li riporto qui di seguito senza un ordine. Il mio nipotino ha una passione per gli elefanti. Fa deliziosi esercizi di mimica per indicare sul libro che ha in mano la proboscide e confrontarla con la mia barba e soprattutto i miei baffi. Mentre lo guardo, da nonno ripenso a mia nonna materna, divoratrice di romanzi che si rifiutava di leggere memorie di deportazione: «Meno se ne parla, meglio è». Poiché nella mia vita ho dedicato molto, forse troppo tempo allo studio della Shoah, questo primo sogno è velato dal senso di colpa per aver disatteso quell’ammonimento. Subentra per fortuna il secondo sogno: l’elefante bianco che il mercante ebreo Isaac, noto per conoscere tutte le lingue e i sentieri del Mediterraneo, portò in dono a Carlo Magno nell’802. Dal caldo torrido del deserto ai rigori di Aquisgrana, sbarcato a Portovenere, pare si sia fermato alcuni mesi a Vercelli, città dove è nata mia nonna. L’elefante pare fosse bianco come lo sceicco felliniano: storici seri danno per certo che sia stato lui il primo ebreo a risiedere sia pure per breve tempo in Piemonte. Migrante bene accetto dalla popolazione di una regione oggi meno ospitale.
Esiste e rivendico il dovere di ricordare, ma ricordo che esiste anche, per fortuna, non dico il diritto di dimenticare, ma il diritto di pensare ad altro. Penso allora a Carlo Magno, che di tanto in tanto pare si servisse dell’elefante bianco per terrorizzare l’esercito nemico. Guardo il nipotino mimare con le manine la grandezza enorme della proboscide disegnata nel suo libro e sorrido vedendolo cercare invano sotto il suo nasino e sotto il mio nasone qualche cosa di simile. E così, puntuale ogni 27 gennaio, spunta il terzo sogno ad occhi aperti. Riaffiora la leggenda chassidica, fra le più belle dell’antologia curata da Martin Buber, quella in cui si spiega l’origine della fossetta che divide il naso dalla bocca di tutti noi che non siamo elefanti, ma bianchi o neri, ebrei o musulmani, sovranisti o antisovranisti, padani o terroni, curdi o turchi, sciti o sunniti. Non serve a nulla, però quella fossetta, è ciò che ci rende eguali. È il segno del dialogo che abbiamo avuto con un angelo prima di nascere: oggi ci può venire utile per attenuare la ritualità di un ricordo ossessivo. Mentre stavamo nella pancia della nostra mamma quell’angelo ci ha istruito, ci ha descritto il Male, ci ha insegnato a difenderci dal Male a prevenirlo. Peccato che, venuti al mondo, l’angelo è apparso davanti a noi, ha messo il suo dito davanti alla bocca e ci ha sussurrato: «Adesso dimentica tutto!».

Alberto Cavaglion