Machshevet Israel
Tra antichi e moderni
Vi fu un tempo – solo poco più di un secolo fa – nel quale il giudaismo europeo ‘pensante’ viveva (e sapeva articolare) un profondo disagio tanto verso il liberalismo ebraico, alimentato dai venti ancora in poppa dell’haskalà, quanto verso l’ortodossia rabbinica, sia quella pre-illuministica sia quella moderna nata in reazione alla riforma. Le due personalità che hanno dato miglior forma concettuale a tale disagio sono Gershom Scholem e Leo Strauss, ebrei tedeschi con interessi accademici diversi, che fecero scelte geo-politiche opposte (terra di Israele il primo, gli States il secondo) e tuttavia legati da profonda amicizia e stima reciproca, e dall’aver fatto fronte comune nella dialettica che prese il nome enfatico di ‘disputa tra antichi e moderni’, dove entrambi si schierano, per così dire, con gli ‘antichi’ contro i ‘moderni’, o meglio contro una modernità che ha perduto la bussola, il senso della tradizione. Una dozzina di anni fa Giuntina pubblicò il loro lungo scambio epistolare – genere letterario a sua volta antico, che internet ha ucciso per sempre – con il titolo Lettere dall’esilio. Carteggio 1933-1973, a cura di Carlo Altini, il maggior studioso italiano di Strauss e, di riflesso, del giudaismo politico tedesco della prima metà del Novecento. Dove però ‘esilio’ non è tanto un luogo fisico quanto uno status mentale: la modernità come quintessenza della condizione esilica rispetto alla ‘patria’ della tradizione intesa come il grande pensiero ebraico antico-medievale.
In un recente saggio apparso sulla Rivista di storia della filosofia, Altini analizza affinità e divergenze tra i due esponenti della simbiosi ebraico-tedesca, facendo emergere anche il problematico ma pur sempre inscindibile rapporto storico tra qabbalà e filosofia. E’ un saggio di magistrale chiarezza nel quale è ben spiegato come Scholem e Strauss, pur condividendo la pars destruens della critica alla modernità, imbocchino poi strade differenti nell’elaborare la pars costruens: la qabbalà per l’uno, la filosofia greca per l’altro. “Queste similitudini e distanze si presentano anche nel momento in cui essi si confrontano con il problema dell’identità ebraica nel mondo moderno: per entrambi sono definitivamentre fallite le illusioni determinate dal liberalismo religioso e quelle coltivate dai sostenitori dell’emancipazione e del dialogo ebraico-tedesco (rappresentato da Hermann Cohen), ma se per Scholem il punto di riferimento interno all’ebraismo è la mistica, per Strauss è il razionalismo (soprattutto quello di Maimonide)”.
È interessante sottolineare non tanto gli esiti dei loro distinti percorsi, in parte conosciuti e anche se spesso divulgati con superficialità, quanto il percorso stesso, cioè il metodo e il mindset di partenza che mai essi hanno abbandonato nelle loro specifiche ricerche: parlo degli strumenti scientifici, dei criteri storico-filologici e dell’acume analitico-comparativo che entrambi hanno appreso da quel piccolo movimento accademico di squisita matrice ebraico-tedesca – che attraversa tutto il XIX secolo – senza il quale non si comprende la (da loro) pur criticatissima modernità: la Wissenschaft des Judentums o Scienza del giudaismo. Insomma, si deve proprio al moderno approccio storico-filologico-critico la possibilità di recuperare quella tradizione in nome della quale si critica la modernità! Ecco un cortocircuito felicissimo e produttivo al quale devono molto quasi tutti i fermenti ebraici moderni: la riforma, la neo-ortodossia, la rinascita della lingua ebraica (e della letteratura in ebraico), i diversi sionismi… Scrive ancora Altini: “Per la Wissenschaft des Judentums l’idea di scienza non implica una critica della tradizione ebraica o un rifiuto dei suoi principi di fede, bensì un metodo di ricerca storico-critico intorno alla tradizione ebraica che, sul piano teorico, esprime quel desiderio di rinnovamento e di liberazione e quella necessità di autocoscienza e di autocomprensione che, sul piano della vita politica e civile, sono espresse dalla storia dell’emancipazione ebraica in Germania”.
Aderendo alla Akademie für die Wissenschaft des Judentums di Berlino, fondata nel 1919, i due giovani ebrei ne condividevano la volontà di rinnovare la ‘scienza del giudaismo’ insufflandole nuovi ideali esistenziali attinti alla ‘tradizione’ ma senza rinunciare agli strumenti scientifici (razionali) che essa aveva elaborato. Il programma di quell’Accademia era infatti una via di mezzo tra i freddi obiettivi dell’haskalà e dell’ebraismo liberale, che riduceva il giudaismo a monoteismo etico, da una parte e dall’altra “lo strenuo desiderio di innovazione religiosa, politica e spirituale dei nuovi movimenti ebraici novecenteschi (in primis il sionismo)”. Anche il Lehrhaus francofortese di Rosenzweig – alle cui attività Strauss partecipò con l’amica Nehama Leibowitz – può esser visto come una via mediana tra approccio scientifico e ritorno non solo ai testi ma soprattutto allo spirito della tradizione ebraica antico-medioevale. Per Scholem come per Strauss era impossibile ‘ridurre il giudaismo a’. Forse in tale consapevole impossibilità stanno al contempo la radice della loro inquietudine e la loro inattuale attualità.
Massimo Giuliani, Università di Trento
(16 gennaio 2020)