Qui Bologna – La mostra
“Brigata Ebraica, simbolo di speranza”
Apre in queste ore, nella sede del Museo ebraico di Bologna, la mostra “Sotto il segno di una nuova stella. La Brigata Ebraica e l’Aliyah Bet 1944-1948”. Attraverso una rigorosa ricostruzione storica, rare immagini fotografiche, materiale militare e filmati d’epoca, la mostra documenta le attività e le azioni della Brigata Ebraica in Italia, dalla lotta di Liberazione alla faticosa ricostruzione.
Guido Ottolenghi, presidente del Museo ebraico bolognese, ha oggi affermato: “Quest’anno inauguriamo la mostra dedicata alla Brigata Ebraica, per approfondire la conoscenza del ruolo che essa ha avuto nella liberazione anche della nostra regione, e nella rinascita ebraica dopo la guerra. Tale rinascita è avvenuta non solo attraverso l’aiuto che la Brigata ha dato materialmente alle comunità distrutte, ma con l’orgoglio e la speranza che persone uscite da anni di persecuzioni e terrore hanno sentito vedendo soldati vittoriosi con la stella di David”.
Pubblichiamo di seguito il suo intervento.
(Nell’immagine i vessilli della Brigata Ebraica e del Gruppo Combattimento Friuli portati all’inaugurazione dai rappresentanti dell’Associazione Nazionale Reduci della Friuli).
Autorità, cittadini, amici, apriamo oggi le iniziative per la XX Giornata della Memoria. Ormai da molti anni noi del Museo, insieme alla Comunità Ebraica, alle Autorità e a molti cittadini sensibili, ci ritroviamo per proporre iniziative che aiutino il mantenimento della memoria e la comprensione dei meccanismi che possono portare alla persecuzione e alla perdita dei valori fondamentali della civile convivenza. Quest’anno inauguriamo la mostra dedicata alla Brigata Ebraica, per approfondire la conoscenza del ruolo che essa ha avuto nella liberazione anche della nostra regione, e nella rinascita ebraica dopo la guerra. Tale rinascita è avvenuta non solo attraverso l’aiuto che la Brigata ha dato materialmente alle comunità distrutte, ma con l’orgoglio e la speranza che persone uscite da anni di persecuzioni e terrore hanno sentito vedendo soldati vittoriosi con la stella di David. E poi vogliamo evidenziare il ruolo che la Brigata ha avuto nell’aiutare persone che non avevano o non volevano più un futuro in Europa a raggiungere Israele. Vogliamo infine soffermarci sull’uso della parola Palestina, che induce a qualche riflessione, e sulle polemiche che in questi anni hanno circondato la partecipazione del vessillo della Brigata Ebraica alle celebrazioni del 25 Aprile, festa della liberazione dal nazifascismo.
Sul primo punto, il ruolo della Brigata e la sua storia, ricordo che essa fu fortemente voluta da Chaim Weizman (che fu poi il primo presidente di Israele) per raggruppare i soldati ebrei che combattevano con gli alleati e reclutarne altri. Sia per il valore simbolico che ciò aveva nella edificazione del futuro stato, sia per formare i quadri del futuro esercito. La cosa fu molto dibattuta, ma infine, nel 1944 fu Winston Churchill a riconoscere “che il dispiegamento di questa bandiera alla testa dell’unità combattente, sarà un messaggio per tutto il mondo”. La Brigata sbarcò in Italia e partecipò a molte battaglie, contribuendo in particolare alla liberazione della nostra regione, combattendo la battaglia del Senio e del Lamone, vicino a Ravenna. Combatté poi sulle colline di Brisighella e entrò a Bologna il 25 Aprile. A Piangipane, vicino a Ravenna, sorge il cimitero militare che onora i caduti della Brigata Ebraica. Noi ce ne siamo già occupati in una bella pubblicazione del 2005, cui ne sono seguite altre, che ci permettono di presentare oggi una mostra più ricca e completa.
Dove arrivava la Brigata, essa portava sollievo e nuova vita alle comunità ebraiche in ginocchio. Organizzava eventi laici e religiosi, portava libri, copie del Talmud e forniva officianti. Anche a Bologna, con la sinagoga distrutta dai bombardamenti, le prime feste ebbero luogo insieme ai soldati della Brigata Ebraica. Mio nonno Guido, che era nascosto a Cotignola (in provincia di Ravenna) ma riuscì a fuggire a Roma nel 1944, risalì l’Italia fino a Ravenna alla fine del 1944 grazie alla Brigata Ebraica, e poté precipitarsi a Cotignola (sul fiume Senio) liberata il 10 aprile 1945 sempre grazie a loro, e ritrovare i suoi salvatori salvi anch’essi in mezzo alle distruzioni. I soldati della Brigata portavano anche i racconti dello sforzo di costruire un nuovo stato ebraico, di organizzarne la vita civile, le istituzioni, i giornali, la cultura, la sanità e aiutarono chi lo voleva a comprendere come fare il passo, non facile, di salire (così si dice in ebraico) in Israele. Qui troverete la storia di un bolognese che seguì questo percorso, e le sue traversie. Al Museo abbiamo presentato in passato la storia di Ciordinik, che da soldato ebreo arrivato qui da Israele con l’VIII Armata britannica si innamorò di una bolognese e restò qui, e i ricordi di Bianca Finzi, compianta presidente della Comunità Ebraica di Bologna, che narra dell’arrivo del “Palestinesi” come tutti li chiamavano, e dell’orgoglio di vedere la stella di David cucita sulle loro divise.
Ma tra i tanti libri che narrano quei momenti, quello forse più fresco e pieno di dettagli del quotidiano, è quello che scrisse Ada Sereni (“I clandestini del mare”) nel 1973, ricordando la sua attività di animatrice della emigrazione ebraica, che raccoglieva in Italia profughi sopravvissuti alla Shoah e in fuga da paesi che non li volevano più, dove non avevano più una casa o un affetto, e guardavano con speranza alla terra di Israele. Tali viaggi erano visti con contrarietà dal governo inglese, che col libro bianco del 1939 aveva crudelmente limitato la immigrazione ebraica a 75.000 persone in cinque anni, chiudendo di fatto le porte agli ebrei in fuga dall’Europa. Con questa scelta gli inglesi prefiguravano una politica sempre più filoaraba che si manifestò appieno dopo la fine della guerra. Ma le autorità italiane vedevano con simpatia la sofferenza e le aspirazioni dei profughi che confluivano in Italia nel 1945, e al contempo temevano che se non fossero potuti ripartire sarebbero diventati un problema per l’Italia a sua volta piena di distruzioni e sofferenze, dunque chiusero un occhio o aiutarono le partenze clandestine che Ada Sereni, con Yehuda Arazi, Raffaele Cantoni e altri valorosi organizzavano da vari porti, del sud e del nord Italia, e di questo troverete dettagli nella mostra. Tra questi porti La Spezia si distinse sia per alcune storie particolari e commoventi, che sono descritte nella bella storia a fumetti di Andrea Campanella e Sergio Ponchione, sia perché fu proprio in un cantiere navale nei pressi di La Spezia che gran parte delle navi furono allestite. La Spezia ricorda questi eventi che le sono valsi la medaglia d’oro al valore civile con un monumento nel porto, al molo Pagliari, che commemora il suo ruolo di “Porta di Sion”.
Ora come avrete notato ho usato spesso la parola Palestina e Palestinesi per ricordare l’insediamento ebraico in Israele, e i suoi cittadini e combattenti ebrei. Questo potrà incuriosire qualcuno, perché nel linguaggio odierno tali termini si riferiscono alla popolazione araba. Ebbene il termine Palestina (che riecheggia il popolo dei Filistei biblici, e che fu in vario modo usato nell’antichità) fu riesumato dagli inglesi nell’ambito del loro mandato per ricostruire un focolare ebraico in quella che fino ad allora era stata una provincia della Siria. Questo termine per molta parte del XX secolo ha identificato ebrei ed ebraismo. Vi sono ad esempio due versioni del Talmud, una sviluppata a Babilonia, e l’altra, più breve, in Israele e completata nel V secolo, che in ambienti accademici è sempre stata definita il Talmud palestinese (anche se oggi questa dizione sta scomparendo perché crea incertezza in chi non ne conosce la storia). Negli atlanti ed enciclopedie degli anni 1920 e 30 (come il Petite Larousse del 1925), la bandiera palestinese era una stella di David con una striscia bianca ed una azzurra, il giornale ebraico era il Palestine Post (che fu rinominato Jerusalem Post nel 1950). Si ascoltava la Palestine Philarmonic Orchestra, fondata da Huberman nel 1936 a Tel Aviv, che fu diretta per il suo concerto inaugurale da Arturo Toscanini, il 26 dicembre del 1936. Il rabbino italiano Dante Lattes nel 1946 pubblicava in Italia “Racconti Palestinesi” per fornire informazioni e incitare i giovani ebrei di allora a familiarizzarsi col pensiero sionista. La popolazione non ebraica si definiva araba, e dopo la nascita dello stato di Israele assunse nazionalità diverse perché la Cisgiordania fu annessa dalla Giordania e Gaza fu amministrata dall’Egitto. È solo dal 1963 o 64 (anno di fondazione dell’OLP) che il nome definisce la popolazione non ebraica dell’ex mandato britannico. È interessante, e meriterebbe più studio, l’utilizzo di questo nome prima da parte degli ebrei e poi degli arabi nel corso del conflitto.
Ora la Brigata Ebraica, qui in Italia spesso nota come Brigata Palestinese, da molti anni sfila con buon diritto assieme ad altre associazioni d’arma o storiche nelle celebrazioni per la Liberazione, cui prese parte come si è visto con eroismo e perdite umane, dalla parte della libertà e contro il nazifascismo. Ma essa è stata spesso oggetto di violente contestazioni da parte di gruppi politici radicali e di organizzazioni filopalestinesi (ora nel senso attuale della parola), che intendono appropriare la festa del 25 aprile alle loro cause politiche. Alcune associazioni, tra cui anche talune sezioni dell’ANPI, hanno dato spazio a questo ostracismo verso la Brigata Ebraica. Ciò costituisce una lettura del presente che prima ancora ancora di essere assai parziale, appiattisce la storia e la sovverte, poiché se la Brigata combatté anche per la nostra libertà, il leader politico degli arabi di allora, il Gran Muftì di Gerusalemme, tramò per un colpo di stato filonazista in Iraq nell’aprile del 1941 per poi fuggire in Persia, da dove fu portato a Roma su indicazione di Mussolini, e da lì in Germania dove assicurò a Hitler il sostegno delle masse arabe e aiutò Himmler a organizzare il contrappasso della Brigata Ebraica, e cioè una divisione di SS musulmani in Bosnia.
Come abbiamo già detto altre volte, il ricordo e la comprensione dei meccanismi che hanno portato alla Shoah hanno senso affinché ci aiutino a vigilare sulle dinamiche della società per evitare che essi si ripresentino. Tuttavia, va fatto un uso fattuale e pacato della memoria, e un uso preciso delle parole. Io credo che la conoscenza possa stimolare le giuste riflessioni nelle teste e nei cuori di chi ascolta e si informa, come voi, e che il compito culturale di istituzioni come il MEB sia di fornire in modo accessibile e rigoroso gli strumenti di pensiero. Quando le istituzioni offrono il “pensiero” e non gli strumenti per l’esercizio libero delle coscienze e delle intelligenze c’è qualcosa che non va. Quando sentiamo paragonare cose non paragonabili o usare a sproposito le parole, dobbiamo allertarci. Io spero che anche quest’anno il lavoro del Museo, che si inserisce in una articolata offerta con la Comunità Ebraica e altre istituzioni, sia all’altezza del compito. Grazie della vostra attenzione.
Guido Ottolenghi, presidente Museo ebraico di Bologna
(19 gennaio 2020)