Ritornando sul negazionismo

claudio vercelliCos’è il negazionismo? Quando è corretto utilizzare una tale parola e, soprattutto, per richiamarsi a cosa? Una definizione esaustiva non è facile da formulare. Si vedrà da quasi subito il perché. Proprio una tale difficoltà può essere un primo punto di partenza: si ha una manifestazione di pensiero negazionista quando ci si riferisce ad un atteggiamento pseudoscientifico, basato sia sulla negazione dell’evidenza dei fatti storici, riconosciuti in quanto tali dalla comunità scientifica e dall’opinione pubblica, sia della loro rilevanza nella formazione della coscienza civile e dei tratti etici della moderna cittadinanza. Se il negare o il rimuovere un fatto, un atto, un soggetto, un evento oppure un insieme di eventi secondari rispetto ai processi storici è sostanzialmente di scarso rilievo ai fini della formulazione di un giudizio condiviso sul passato, il negazionismo – invece – opera al cuore della formazione del consenso morale diffuso, ossia sui modi in cui valutare ciò che è stato per capire il senso dei tempi correnti. In altre parole, non colpisce mai una vicenda di secondario valore ma entra nel merito di percorsi e processi fondamentali per la cognizione civile collettiva. L’operazione ideologica negazionista, quindi, non ha ad obiettivo la conoscenza storica, di cui nega le stesse radici, bensì il suo uso politico, per manipolare la capacità di giudizio nel presente. Il termine è usato principalmente per definire coloro che affermano la non esistenza della Shoah, lo sterminio degli ebrei da parte della Germania nazista. Per estensione, indica una serie di condotte che, ribaltando il giudizio di senso condiviso, confermato dall’ampia documentazione disponibile, dalle molteplici testimonianze, dalle numerose ricerche, imputa invece alle stesse vittime, gli ebrei, la responsabilità di avere inventato la menzogna di un genocidio ai propri danni per potere ricattare i tedeschi e, più in generale, tutti i non ebrei. Tale macchinazione sarebbe parte del tentativo ebraico di dominare il mondo, ingenerando un persistente senso di colpa per una tragedia che, affermano i negazionisti, invece non è mai accaduta. Il negazionismo è considerato, in questo caso, un fenomeno che si ricollega alla visione complottista dei processi storici, la quale attribuisce all’azione di forze occulte (tra i quali gli stessi ebrei) il tentativo di influenzarne l’evoluzione a proprio beneficio. Storicamente, la radice del moderno negazionismo rimanda sia alla diffusione dell’antisemitismo ottocentesco sia al più generale rifiuto della modernità, dopo la caduta del sistema di Ancien Régime e il consolidarsi dei processi rivoluzionari. Non è peraltro un caso che le prime manifestazioni di negazionismo si abbiano quando nel 1835 il matematico e fisico Jean-Baptiste Pérès dà alle stampe un pamphlet Comme quoi Napoléon n’a jamais existé ou Grand erratum, source d’un nombre infini d’errata à noter dans l’histoire du XIXe siècle, nel quale, tra ironia e sarcasmo, ipotizza che l’Imperatore di Francia sia stato solo un «mito solare». Tuttavia, è con il Ventesimo secolo, e con le tragedie collettive che ne costellano l’evoluzione, che il negazionismo, da stravagante rifiuto dell’evidenza, si trasforma in un fenomeno politico, legato prevalentemente a ciò che resta del nazismo dopo la fine del regime di Hitler. I negazionisti della Shoah si presentano spesso indossando le false vesti di studiosi dello sterminio e dei crimini nazisti. Rivendicano per sé lo status di “scienziati”. Come tali, dichiarano di volere cercare quella verità che, a loro dire, sarebbe invece stata omessa o comunque occultata sotto un cumulo di falsificazioni. Per fare ciò dichiarano che i nazisti non volevano sterminare gli ebrei, intendendo piuttosto raccoglierli in campi di concentramento, in quanto «nemici del Reich»; che non siano mai esistite le camere a gas né i campi di sterminio; che il numero di morti tra la popolazione ebraica, durante la Seconda guerra mondiale, sia stato deliberatamente esagerato e che comunque buona parte di essi siano state vittime della guerra stessa e non di un progetto politico di annientamento sistematico; che tutte le prove raccolte costituiscano dei falsi o, comunque, delle fonti interpretate in maniera errata; che le testimonianze dirette dei sopravvissuti siano il prodotto di una manipolazione. È infatti tipico dei negazionisti, autodefinitisi «revisionisti», ribaltando l’accusa di falsificazione della storia sugli storici medesimi, definiti in termini spregiativi come «sterminazionisti». Non di meno, di se stessi dicono di essere dei perseguitati. Il riscontro che le loro affermazioni siano rifiutate da tutta la comunità scientifica sarebbe, a sua volta, la prova di una congiura per escludere la scomoda, se non scandalosa, “verità”, dell’insistenza del genocidio. A tale insieme di asserzioni, in questi ultimi decenni, è andata aggiungendosi l’accusa che ciò che essi definiscono come la «menzogna di Auschwitz» sia dovuta anche e soprattutto al fatto di dovere giustificare politicamente l’esistenza dello Stato d’Israele in quanto comunità politica ebraica, presentato come una sorta di indebito “risarcimento” per la Shoah. Se il negazionismo olocaustico trova i suoi primi autori nel côtè neonazista, tra quanti, dopo la fine della guerra, nel tentativo di alleggerire le responsabilità tedesche, cercano di cancellarne i crimini peggiori, con il trascorrere del tempo l’area di coloro che ne vengono coinvolti si espande. Così, se inizialmente sono gli ambienti dell’ex collaborazionismo francese, a partire da Maurice Bardèche, a formulare la polemica contro la “giustizia dei vincitori”, quella che sarebbe stata imposta dagli Alleati e dall’Unione Sovietica con i processi “farsa” di Norimberga, negli anni Sessanta si aggiungono personaggi come Paul Rassinier, ex deportato politico nei campi di concentramento nazisti, il saggista Robert Faurisson, che dà corso da una lunga polemica sui mezzi di comunicazione e quanti, a vario titolo, si riconoscono intorno all’americano Institute for Historical Review. Quest’ultimo, fondato nel 1978, si presenta come un centro di ricerca “indipendente” ma è ritenuta un’organizzazione non solo negazionista ma anche antisemita e vicina al neonazismo. Alle sue attività ha partecipato, direttamente o indirettamente, il milieu del negazionismo, tra i quali Mark Weber, Bradley Smith, lo stesso Robert Faurisson, Ernst Zundel, Jürgen Graf, David Cole come il più famoso David Irving, pubblicista di richiamo, e l’italiano Carlo Mattogno, prolifico autore di numerose opere che tentano di dimostrare l’impossibilità tecnica del genocidio attraverso il ricorso ai gas. Con la diffusione del web e di internet, insieme al complesso delle tecnologie informatiche, lo sviluppo dell’ambiente virtuale costituisce la nuova piattaforma del negazionismo, potendo operare su un inedito piano cognitivo, dove la distinzione tra vero e falso nella valutazione delle fonti, così come nella formazione dell’opinione storica, segue percorsi e modalità non riconducibili alle più tradizionali prassi storiografiche. Un elemento di fascino è offerto dal carattere di giudizio «anticonformista» che le posizioni negazioniste assumono nei confronti delle idee correnti, presentandosi, anche per questo solo fatto, come una sorta di critica (del tutto fittizia se non falsa) ai poteri costituiti e alle istituzioni sociali, a partire dalla stessa scuola, gli uni e le altre denunciate come elementi e strumenti di «indottrinamento». Non di meno, la negazione così come la banalizzazione o il riduzionismo del significato storico della Shoah, sono divenuti terreni di scontro politico in una parte del mondo musulmano, dinanzi all’irrisolto conflitto che divide israeliani e palestinesi, e nei processi di radicalizzazione fondamentalista in atto in alcuni movimenti islamisti. Per estensione concettuale, ed anche in accordo agli aspetti culturali della diffusione dei diritti umani, soprattutto per il tramite degli organismi internazionali, il negazionismo, in quanto atteggiamento mentale di rifiuto dell’evidenza di alcuni fatti storici acclarati nonché nella sua radice di strategia politica di delegittimazione delle minoranze, è un fenomeno che è stato attribuito anche a certe condotte assunte da autorità pubbliche, come nel caso della moderna Turchia rispetto al genocidio del popolo armeno.

Claudio Vercelli

(19 gennaio 2020)