Propaganda alla ribalta
Difficile non indignarsi e rimanere silenti dopo aver visto Dio ride. Nish Kosh di e con Moni Ovadia, spettacolo in programma alle Fonderie Limone di Moncalieri in cartellone per il Teatro Stabile di Torino. Da presunta performance artistica a comizio politico in un clima irriverente e inappropriato, senza possibilità di controbattere, ma solo di applaudire (come di fatto è accaduto).
Non nuovo a uscite di cattivo gusto sugli ebrei, Ovadia ha superato stesso proprio nel momento in cui Enti, istituzioni, partiti politici, i vertici del Calcio, molte Regioni sono impegnati a combattere l’antisemitismo, l’odio e il razzismo.
Fuorviante, spregiudicato e meschino. Così definisco Moni Ovadia e il suo propagandistico uso della ribalta nel momento in cui si toglie il talled (simbolo religioso) per indossare la kephia (simbolo politico), una transizione monca perché non scende dal palco abbandonando le vesti di attore, ma rimane sotto i riflettori.
Lo spettacolo inizia: musica ebraica di sottofondo, battute umoristiche: la prima l’avevi già messa in conto, la seconda ti colpisce in modo lieve, la terza ti irrigidisce. L’asticella continua ad alzarsi e tu puoi fare due cose: alzarti e andartene o assistere fremente seduta al tuo posto. E così ho fatto. Ma non basta assistere: ho sentito il bisogno impellente di raccontare, di documentare, di scrivere, facendo mio un ruolo che di solito non rivesto. Storielle ironiche e musiche klezmer scandiscono le più che discutibili riflessioni del protagonista Moni Ovadia sull’esilio e l’ossessione per la terra come patria, di come la deriva nazionalista abbia fatto perdere la spiritualità, la leggerezza del sorriso fraterno a discapito di una passione per l’erezione di muri e nazioni: “Il Messia è un’invenzione degli ebrei”; “il sionismo è un fanatismo estremo con bombe atomiche e filo spinato”; “i Palestinesi vivono in una prigione dove le donne non hanno neanche lo spazio per partorire”. Il più subdolo antisemitismo mascherato da antisionismo. Le immagini proiettate sullo schermo mostrano i muri di Israele: quello Occidentale e quello costruito per difendere il “ghetto della prepotenza”. Come ha fatto Israele a ridursi così?! È l’inizio di una filippica dai toni molto duri che contrappone gli splendori dell’esilio al buio del nazionalismo più gretto.
Moni Ovadia supera se stesso non solo per mostrare al pubblico il suo odio e il suo disprezzo per Israele, ma per fare propaganda pro palestinese in un contesto inappropriato. Troppo facile, pubblico da un lato che fruisce dello spettacolo, attore dall’altra. Lungi da me condannare a priori il teatro impegnato, o l’arte come denuncia sociale, sì. Tutto si può fare nel giusto contesto e con esplicite premesse. Ma soprattutto confrontandosi con una platea preparata (o anche solo parte di essa), pronta a controbattere, pronta allo scontro verbale, ma non immobilizzata su una sedia nel buio più nero dell’indifferenza e del compiacimento del resto del pubblico, mentre un ciarlatano si esibisce immune da reazioni diverse da un applauso.
Livia Momigliano