Tra ebraismo e filosofia
È morto ieri Emanuele Severino, probabilmente il più grande filosofo italiano degli ultimi decenni. Persona che ha dato lustro alla cultura del nostro Paese in tutto il mondo. Le caratteristiche del suo pensiero sono, credo, note a tutti: l’adesione incondizionata all’immagine di un Essere che supera ogni distinzione culturale. Un pensiero capace di “superare la porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno”, come diceva il suo amato Parmenide, per dirigersi verso un’Unità immanente ad ogni atto della nostra vita. Inutile negare che si tratta di una plastica rappresentazione di quell’universalismo greco così problematico per una mentalità ebraica. Ma bisogna sempre ricordare che nel Talmud ed in generale nella tradizione (si veda ad esempio il Kuzarì) la filosofia assume un ruolo positivo, così come la cultura greca, oppure la figura di Alessandro Magno. Insomma fra ebraismo e filosofia si è nei secoli costruito un rapporto di amore e odio, come avviene sempre fra fratelli che si riconoscono in una stessa origine: quella visione unitaria che riconduce ad un principio unico la molteplicità della nostra esperienza. Non sono al corrente di rapporti fra Severino ed intellettuali ebrei, che sicuramente ci saranno stati, avendo lui svolto la gran parte della sua vita universitaria a Venezia. Credo, però, sia un dovere ricordare anche qui il valore del suo pensiero, che è stato una guida per generazioni di studenti e studentesse di ogni parte d’Europa. Nella consapevolezza che non può morire chi non crede, come era per lui, alla morte.
Davide Assael
(22 gennaio 2020)