La sinistra italiana e gli ebrei
Appena pubblicato, il libro di Alessandra Tarquini (La sinistra italiana e gli ebrei. Socialismo, sionismo e antisemitismo dal 1892 al 1992, Il Mulino, Bologna, 2019)) è stato oggetto di una serie di significative recensioni sui più importanti quotidiani italiani. Segno non solo del valore dell’opera ma della persistente attualità del tema il cui interesse travalica il campo degli studi storici, al quale appartiene, prima di tutto, questo lavoro.
Molti sono i meriti del lavoro di Alessandra Tarquini. Partirei dal fatto che è il primo studio complessivo sul tema dei rapporti tra la sinistra italiana e gli ebrei. Molti sono stati – soprattutto negli ultimi anni – gli studi su aspetti particolari di questo rapporto, in larga misura dedicati agli ultimi settanta-ottanta anni, da quando cioè due eventi- entrambi, nel loro ambito, sconvolgenti – hanno radicalmente modificato i termini del problema: la Shoah e la nascita dello Stato d’Israele. Ma nessun storico si era finora deciso a tentare una sintesi che abbracciasse l’intero secolo che va dalla nascita del Partito Socialista Italiano alla sua scomparsa che coincide, più o meno, con la fine dell’altro protagonista della storia della sinistra italiana, il Partito comunista.
Bisogna sottolineare che avere affrontato in maniera complessiva il tema del rapporto tra sinistra ed ebrei non ha solo l’evidente pregio della completezza: fermarsi a questo aspetto significherebbe non comprendere pienamente il significato della scelta di Tarquini di partire dalla fine dell’Ottocento per risalire fino ai nostri giorni. Partire dalle origini ha significato comprendere che certi aspetti, anche attuali, delle difficoltà del rapporto tra i due termini del problema erano presenti fin dall’inizio ed hanno continuato ad agire per l’intero secolo.
Il primo di questi aspetti – anzi, il nodo centrale del rapporto – è costituito, vorrei dire naturalmente, dal tema dell’assimilazione. Continuando la tradizione del Risorgimento i socialisti erano senza esitazione per la soluzione della questione ebraica per mezzo dell’assimilazione, posizione che li portava non soltanto a non comprendere e quindi a rifiutare la proposta del nascente sionismo ma, soprattutto, a non comprendere la specificità dell’ebraismo. L’incomprensione da parte della sinistra – ma certamente non solo della sinistra – della specificità dell’ebraismo – questo dono prezioso per l’intera umanità – è in realtà il filo rosso che lega tutto il lavoro di Tarquini.
Ma bisogna anche dire che la prospettiva assimilazionista era condivisa alla fine dell’Ottocento – e lo è stata fino alla metà del Novecento – da larga parte dell’ebraismo italiano. Come avrebbero potuto i socialisti andare contro questa tendenza appoggiando un movimento, il sionismo, che non capivano, di cui coglievano solo gli aspetti nazionalistici, e, in certi casi, fraintendendo, quelli religiosi? D’altra parte gli stessi ebrei italiani, pur mantenendo una loro identità religiosa, non mettevano in discussione la loro appartenenza al popolo italiano; anzi, in seguito al Risorgimento che aveva sancito l’emancipazione, la esibivano con fierezza. Questo senso di appartenenza nazionale costituiva la premessa, e in certi casi il primo passo, per la scelta da parte di alcuni verso la completa assimilazione che non coinvolse la maggioranza degli ebrei italiani ma che rimase sempre, fino alla metà del Novecento, una prospettiva possibile.
Ulteriore merito – e non minore – di Tarquini è quello di aver messo in evidenza che tutte queste problematiche, lette in chiave italiana, avevano un’origine e una prospettiva europea sia nelle opere dei classici del marxismo e dei teorici della II Internazionale sia nella prassi del movimento operaio europeo.
Non seguiremo Alessandra Tarquini in tutto il resto del volume, nella parte dedicata al periodo tra le due guerre mondiali e poi – soprattutto – a quella – la più ampia e la più ricca – nella quale viene affrontata la linea seguita dal PSI e dal PCI dopo la nascita dello Stato d’Israele. Invitiamo naturalmente i lettori a farlo, e a farlo con attenzione, perché ritroveranno tutti i temi che ancora oggi sono alla base del rapporto tra sinistra ed ebrei in Italia, e non solo.
Per parte nostra ci soffermeremo in questa sede su due aspetti che ci sembrano di particolare interesse, anche per l’oggi.
Il primo riguarda la persistenza dell’ambiguità, e spesso l’ostilità, della sinistra italiana – in tutte le sue attuali espressioni – nei confronti dello Stato d’Israele, precisando che per sinistra intendiamo non solo il PD e gli altri gruppi politici alla sua sinistra come LEU o SI, ma anche quella che viene chiamata la “sinistra diffusa” che comprende sia i gruppi più estremistici come molti Centri sociali o le piccole organizzazioni esplicitamente filopalestinesi, sia, soprattutto, buona parte del mondo della cultura e dell’informazione: parte rilevante degli intellettuali e degli accademici, molte case editrici, molti giornalisti che operano sia nel mondo della arta stampata che nelle radio e nelle televisioni.
Tutto questo mondo – con numerose e qualificate eccezioni – ha una posizione, come abbiamo detto, o ambigua o sostanzialmente ostile allo Stato d’Israele, una posizione che naturalmente tende a spingere una parte rilevante degli ebrei italiani verso un sostegno alla destra rovesciando un comportamento in senso opposto che si era manifestato a partire dalla fine della II guerra mondiale. Ma la domanda che dobbiamo porci è se questa ostilità è il frutto di analisi della realtà attuale o se piuttosto esprime la persistenza di atteggiamenti politici e ideologici precedenti, risalenti ad altri momenti della storia d’Italia.
Come ricostruisce con accuratezza Tarquini, il PCI è stato a partire dalla fine degli anni ’40 e dall’inizio degli anni ’50 fortemente ostile allo Stato d’Israele, seguendo, come era prassi nel movimento comunista internazionale, la linea politica dell’Unione Sovietica e trascinando con sé, almeno fino all’inizio degli anni ’60, il PSI che solo con il recupero della propria autonomia politica modifica la sua posizione anche nei confronti dello Stato ebraico, una modifica che ha il suo culmine in occasione della guerra dei Sei giorni che, non a caso, coincide con la riunificazione – peraltro effimera – con il PSDI che era sempre stato filoisraeliano.
Con la crisi italiana – ma anche internazionale – dell’inizio degli anni ’90, la scomparsa, almeno nominale, del PCI e quella, più sostanziale, del PSI, si sarebbe potuto pensare che, nei quasi trenta anni che ci separano da quegli eventi, il comportamento della nuova (ma forse non rinnovata) sinistra italiana verso Israele si sarebbe modificato. In parte ciò è stato vero ma solo per alcune singole figure; si pensi in particolare a Matteo Renzi e ai suoi sostenitori: nel suo complesso la sinistra italiana – nel senso sopra precisato – ha continuato a essere ostile allo Stato d’Israele.
La domanda che ci poniamo è se questa continuità sia attribuibile soltanto alla persistenza, in particolare all’interno del PD, di aspetti provenienti dalla cultura politica del PCI oppure se agiscano anche altre componenti politiche e culturali.
La mia ipotesi è che in realtà sia presente ancora oggi, nella sinistra italiana, una componente politica e soprattutto culturale che ha origine in quella che fu chiamata la Nuova Sinistra e che agì in profondità sull’identità non solo della sinistra ma dell’intera società italiana a partire dal 1968 e poi negli interi anni Settanta, continuando poi a esercitare la sua influenza nei decenni successivi e i cui cascami giungono fino ai nostri giorni.
Poiché sto parlando di un periodo successivo a quello racchiuso nei limiti temporali del lavoro di Alessandra Tarquini, non ho intenzione di trascinarla in questa mia interpretazione. Ma non posso non ricordare che Tarquini ha dedicato molte pagine, e molto convincenti, all’influenza che negli anni che ho ricordato esercitò sulla sinistra italiana la Scuola di Francoforte e in particolare Herbert Marcuse che diventò moneta corrente non solo di alcuni intellettuali ma dell’intero movimento – che fu un movimento di massa – conseguente al ’68.
Se si pensa che una componente essenziale di quel movimento fu l’antimperialismo e l’elaborazione di una cultura che faceva perno sull’individuazione dei popoli e dei Paesi del Terzo Mondo come soggetti rivoluzionari, con una particolare predilezione verso il movimento palestinese, si capisce come il permanere dell’ostilità pregiudiziale verso lo Stato d’Israele, caratteristica di quel movimento, metta in evidenza la persistenza di elementi di quella cultura fino ai nostri giorni. D’altra parte elementi di quella cultura erano penetrati in profondità, negli anni ’80, anche all’interno del PCI, nonostante le iniziali resistenze, e non può perciò stupire che si siano travasati nel PD e ancor più nei gruppi che si collocano più a sinistra.
L’ultimo punto che intendo toccare è quello della svolta del PSI, e in particolare di Bettino Craxi, nell’atteggiamento verso lo Stato di Israele. Quello della svolta è anche il titolo di un paragrafo del lavoro di Tarquini ma poiché anche in questo caso, e ancor più del caso precedente, intendo esporre una mia interpretazione, non intendo coinvolgerla, assumendomi la piena responsabilità di quello che sto per scrivere. D’altra parte la fecondità di un lavoro si misura proprio dagli stimoli che riesce a suscitare provocando riflessioni di segno anche diverso da quello dell’autore.
Il Partito Socialista unificato era stato al fianco di Israele in occasione della guerra dei Sei giorni, in contrapposizione al PCI. L’anno successivo, il 1968, dopo il deludente risultato elettorale, PSI e PSDI tornarono a dividersi, ma questo non significò, per il PSI, il ritorno automatico a posizioni antiisraeliane. Persisteva una forte corrente autonomista, sulla quale esercitava la sua influenza il vecchio Pietro Nenni, che mantenne una posizione equilibrata nei confronti della situazione mediorientale, anche se si manifestò una sinistra interna che con varie sfumature assunse una diversa posizione per quanto riguardava il conflitto israelo-palestinese. Soprattutto, in particolare nel periodo in cui alla guida del partito era Francesco De Martino, si manifestò su questo tema una forte ambiguità, riflesso della più generale ambiguità del PSI in quella fase.
Accanto a Pietro Nenni era cresciuto a Milano un giovane dirigente, Bettino Craxi che veniva anche dall’esperienza delle organizzazioni universitarie come l’UGI (Unione Goliardica Italiana), di indirizzo laico-socialista, spazzate via dall’onda del ’68.
Craxi aveva una posizione nettamente autonomista e divenne rapidamente uno dei più influenti dirigenti del partito finché nel 1976, con un’abile operazione politica che coinvolse la sinistra del partito, riuscì a farsi nominare segretario. La sua politica era centrata sul tentativo di sollevare il PSI dalla posizione di subalternità nei confronti sia della DC che del PCI per far sì che il PSI potesse avere un ruolo autonomo, al centro della politica italiana.
Nei confronti dello Stato d’Israele Craxi aveva sempre manifestato un chiaro appoggio, accompagnando Nenni in una visita in Israele che lo mise in contatto con i dirigenti laburisti israeliani, e mantenne questa posizione anche dopo che era stato eletto segretario del partito. D’altra parte un elemento essenziale della sua politica era la concorrenza a sinistra che comportava una crescente contrapposizione con il PCI, una contrapposizione che non poteva non riflettersi sul rapporto con lo Stato d’Israele.
E’ perciò apparentemente inspiegabile l’improvviso e totale voltafaccia compiuto da Bettino Craxi su questo punto, con il manifestarsi di un appoggio senza riserve verso l’OLP e di una crescente ostilità verso lo Stato ebraico. Di solito si pensa, a questo proposito, all’episodio del dirottamento dell’”Achille Lauro” e alla conseguente crisi di Sigonella che risale all’estate del 1985. In realtà, come evidenzia anche Alessandra Tarquini, la svolta risale all’inizio del 1980 e fu una svolta improvvisa e immotivata che si manifestò, in particolare, con l’uso di un linguaggio di inusitata violenza nei confronti dello Stato d’Israele, un linguaggio mai prima d’allora usato dal leader socialista e non giustificato da eventi particolarmente rilevanti: alla guerra del Libano mancavano ancora due anni.
Come si spiega questa svolta? E’ singolare che negli infiniti dibattiti – che si sono rinfocolati in questi giorni – volti a condannare o al contrario ad esaltare o comunque a rivalutare la figura di Craxi questo punto sia rimasto non solo senza risposta ma addirittura la domanda stessa non sia stata formulata.
La risposta più semplice sarebbe quella che Craxi aveva cambiato opinione per ragioni politiche, maturate in tempi più o meno lunghi. Ma è una riposta troppo semplicistica che urta contro almeno due considerazioni. La prima, evidente, che questa svolta contraddiceva la linea politica generale di contrapposizione al PCI, sostenitore senza riserve dell’OLP. Parlare di concorrenza a sinistra su questo tema non è convincente, anche perché, su altri temi ancor più dirimenti, il PSI di Craxi non esitò a esercitare la concorrenza a sinistra non assumendo la stessa posizione del PCI ma al contrario scegliendo una linea opposta.
Inoltre c’è da considerare che un capovolgimento così totale non si manifesta in modo improvviso ma è preceduto da segnali, da fasi nelle quali la modifica della posizione si manifesta, magari anche in tempi brevi, ma mai così bruscamente come avvenne nel caso di Craxi.
Quale può essere allora la spiegazione? Finora non ci sono documenti che possano fornirla e forse non ce ne saranno mai. Però, poiché il problema resta, si possono fare delle ipotesi, basate soprattutto sulla riflessione sul momento che il PSI di Craxi stava attraversando, caratterizzato dalla sua ricerca di sostegni di ogni genere, non solo alla sua politica ma in particolare alla organizzazione del partito, che stava diventando elefantiaca e assai costosa. Di più, allo stato dei fatti, non si può dire, ma la domanda resta e non può essere elusa.
Valentino Baldacci