Le schede delle tredici pietre d’inciampo
posizionate a Firenze il 23 gennaio

Giorgio Levi delle Trezze, ultimo dei figli di Cesare e Giuseppina Levi, nacque a Venezia nel 1870. Laureato in ingegneria a Padova, sposò la russa Xenia (Haya) Poliakoff (1872-1944), figlia del banchiere miliardario Lazar e di Rozalia Wydrina, che aveva conosciuto a Parigi.
Giorgio Levi fu nominato console di Persia e il re Umberto I gli diede il titolo di Barone. I coniugi andarono ad abitare a Roma nella elegante via Boncompagni, dove fecero ristrutturare una villa dal cugino Carlo Pincherle Moravia, il padre dello scrittore Alberto Moravia.
L’Orfanotrofio israelitico di Roma fu fondato nel 1902 non solo dai Levi, che vi profusero energie e la maggior parte dei milioni necessari, ma anche da molti altri benefattori, Per quanto riguarda l’ospedale veneziano Umberto I, che si trova a Cannaregio (non lontano dal ghetto), Giorgio e Xenia furono tra i fondatori.
Il baronato, ottenuto nel 1899, ha come predicato quello di una località del basso Veneto che era stato oggetto di vaste bonifiche da parte della famiglia di Giorgio Levi.
La tenuta delle Trezze era composta da terreni in parte coltivati da affittuari del posto e in parte paludosi.
Nel frattempo i coniugi, che a Firenze abitarono in un primo tempo in Lungarno degli Acciaioli 8, si erano fatti costruire due edifici per proprio uso, uno a Firenze in piazza Oberdan, oggi trasformato in residence, e l’altro, di cui si è già detto, a Roma.
Prima della guerra i baroni avevano prudentemente trasferito parte del loro capitale liquido in Svizzera. Appare quindi incomprensibile che, dopo l’armistizio e la retata degli ebrei romani del 16 ottobre 1943, a cui erano scampati per un soffio rifugiandosi a Firenze, non avessero immediatamente intrapreso la fuga alla volta di quel Paese. Forse non fecero in tempo, o forse si illudevano.
Tant’è vero che, nonostante le retate a Firenze cominciate agli inizi di novembre del 1943 e i coniugi vissero nella loro casa ancora fino al febbraio successivo.
La baronessa era stata arrestata a Firenze insieme con il marito Giorgio Levi delle Trezze il 21 febbraio 1944 dal comando tedesco. Entrambi ultrasettantenni, avrebbero dovuto essere esentati dalla cattura”. I Levi delle Trezze furono deportati da Firenze un mese dopo e, dopo essere transitati per Fossoli, trovarono la morte ad Auschwitz.

Lucia Levi era l’ultima rappresentante di una famiglia LEVI, sefardita, presente a Firenze da alcuni secoli e ancora assai attiva in campo ebraico dove vari suoi antenati avevano avuto l’incarico di “cancelliere” della Comunità ebraica.
Suo nonno Salvatore era stato massaro e direttore del tempio Levantino.
Aperto il ghetto si era trasferito con la sua numerosa famiglia (undici figli viventi!) in un bel palazzetto tutt’ora esistente nella vicina piazza dei Giuochi.
Lucia era la figlia minore di Ottavio, buon pittore, di cui sono esposti nel nostro museo i tre quadretti che ci tramandano il ricordo delle piccole sinagoghe di via della Oche dove, all’interno della casa già dei Finzi, erano stati ricostruiti, con i loro arredi, i due luoghi di culto del ghetto.
La madre di Lucia invece apparteneva alla famiglia SFORNI, nota per le sue collezioni di quadri, che fece fare alla figlia, giovane sposa del corfiota Edgardo LEVY, il bellissimo ritratto donato dai suo eredi alla nostra Comunità.

Pietre di inciampo a casa Levi, piazza delle Cure

Un appartamento in questa casa, in piazza delle Cure 7, al primo piano a sinistra, è stata l’ultima abitazione dei nostri nonni paterni Giulio Levi e Adriana Castelli e del figlio Aldo.
A noi, Adriana e Giulio Levi, unici nipoti viventi, poco resta di loro: Adriana non era nata, Giulio aveva quasi sette anni. Resta qualche fotografia e qualche racconto di nostra madre, Matilde Vita. Nostro padre Sergio è morto presto, nel 1966, quando ancora si raccontava poco del periodo delle leggi razziali e della guerra non solo fuori ma anche in famiglia: si tendeva a chiudere con un passato così doloroso. In particolare nostro padre, che aveva perso i genitori e un fratello, non è mai tornato sull’argomento.
Giulio Levi era nato a Casale Monferrato nel 1878 e aveva tre fratelli, Adriana Castelli era nata a Livorno nel 1886 e aveva due sorelle
I nonni Levi si sono sposati nel 1907; hanno avuto tre figli, Cesare del 1908, laureato in Scienze Economiche, Sergio del 1910 laureato in medicina, Aldo del 1911 laureato in legge.
Nonno Giulio lavorava per la Fondiaria e vi si recava in carrozza nella sede di piazza della Repubblica. Ci sono fotografie del 1925, Di Nonna Adriana resta solo una foto ritratto degli anni 20. Quel poco che sappiamo della loro vita deriva da quanto ci ha raccontato nostra madre. Sappiamo che entrambi (ma soprattutto Giulio, affetto da vari problemi di salute) erano poco adattabili alle condizioni di vita imposte dalla guerra e dalle persecuzioni razziali. Nell’autunno del 1943, sollecitati a trasferirsi nelle vicinanze del figlio Sergio, che si era rifugiato con la famiglia alla Badiaccia vicino a Greve, non riuscirono ad adattarsi alla vita scomoda di una sistemazione in campagna e tornarono presto a Firenze nella casa in piazza delle Cure.
Aldo era avvocato, e fino a che ha potuto ha esercitato la professione a Firenze. Dopo la promulgazione delle leggi razziali del 1938 tentò invano di trovare lavoro in Inghilterra, dove si incontrò con Sergio, anche lui alla vana ricerca di un impiego. Tornato a Firenze, ossessionato dalla impossibilità di lavorare ebbe una crisi depressiva e tentò il suicidio all’inizio degli anni 40. Raggiunse la famiglia del fratello Sergio alla Badiaccia da dove fuggì, di nuovo a Firenze, terrorizzato dopo che nelle vicinanze erano stati catturati vari membri della famiglia Passigli, nostri parenti dal lato materno.
Il primo marzo 1944 Aldo cadde in una trappola, un falso appuntamento di lavoro in piazza della Repubblica organizzato da un falso amico; lì fu catturato dai nazifascisti e spogliato di quanto aveva addosso. Nello stesso giorno i nazifascisti arrestarono in casa i genitori Giulio e Adriana e svuotarono la casa di tutto il suo contenuto, dai mobili alla biancheria intima. Tutti e tre furono trasferiti in carcere, gli uomini alle Murate e Adriana nel carcere di Santa Verdiana. Pochi giorni dopo furono trasferiti nel campo di concentramento di Fossoli e da lì ad Auschwitz dove i nonni furono eliminati subito, mentre Aldo morì durante una “marcia della morte”, un trasferimento da Sosnowitz (un sottocampo di Auschwitz) a Mauthausen nel mese di gennaio 1945, pochi giorni prima della liberazione del campo da parte dell’esercito sovietico.
Tre giorni dopo, con l’angoscia che ci si può immaginare, Sergio con la moglie, i figli e il fratello Cesare, iniziava un pericoloso viaggio verso la Svizzera grazie all’interessamento di alcuni membri della Resistenza, che lo sconsigliarono di restare a Firenze, dove non avrebbe potuto far niente per i familiari imprigionati e dove per la sua famiglia sarebbe enormemente aumentato il rischio di fare la stessa fine.

Gallico
Di loro so soprattutto quello che ho appreso dai racconti e dal libro di mia madre, Nadia Gallico Spano, e da un ricordo di Sergio che Bianca Bianchi ha riportato nelle sue memorie.
Dello «zio Augusto» noi figlie sentimmo parlare da mia madre, figlia di Renato, suo fratello maggiore, fin da piccole. Ci raccontava di un viaggio indimenticabile che lei e sua sorella Diana avevano compiuto nell’estate del ‘35 con la famiglia dello zio da Tunisi, dove risiedevano allora i Gallico, – emigrati da Firenze in cerca di fortuna sul crinale del nuovo secolo ventesimo, – attraverso Firenze e Venezia fino a Cortina d’Ampezzo.
Fu un viaggio meraviglioso che rinsaldò i già forti legami famigliari e trasformò la relazione tra cugini in una profonda amicizia. Sergio restò a Firenze dove si iscrisse alla facoltà di matematica. Le ragazze tornarono a Tunisi e anche gli zii.
I Gallico erano giunti in Tunisia richiamati dalla figlia maggiore, Clara, che vi aveva trovato un impiego come istitutrice e insegnante di pianoforte. Partirono tutti: il vecchi Attilio – che, in seguito, ammalatosi, sarebbe poi tornato per morire a Firenze – sua moglie Laudomia, i figli Renato, Valentina, Margherita e Augusto, che divenne in seguito insegnante di lettere sposò Amelia Galligo, una donna semplice, ricca di buon senso e di umanità, che aveva lavorato come copista di quadri. Nadia scrive che “in lei si avvertivano le caratteristiche dell’indole e della cultura fiorentina…. Il fascismo non le piaceva ma non diceva nulla per non nuocere al marito”. Augusto, infatti, benché tiepido, si era iscritto al fascio e fu questa l’origine del dissidio con Renato che finì per guastare l’armonia tra i due fratelli. In quanto insegnante in un liceo italiano, Augusto si trovò stretto tra le pressioni da parte del Consolato fascista e il disagio nei confronti di suo fratello, antifascista come sua moglie e i suoi figli, che gli aveva garantito istruzione e benessere poiché aveva assunto la responsabilità di tutti i membri della famiglia. Renato divenne poi avvocato ed esercitò la professione fino all’emanazione delle leggi razziste. Le discussioni tra i due fratelli furono penose e le loro posizioni inconciliabili. Augusto chiese il trasferimento ad Alessandria d’Egitto e poi disgraziatamente tornò a Firenze.
Nel maggio del ’45 la famiglia della zia Valentina, che aveva sposato un Volterra e viveva a Parigi, su suggerimento del Consolato italiano nella capitale francese si rifugiò a Firenze, perché in Francia erano già cominciate le deportazioni, di cui fu vittima anche la consuocera di Valentina, l’altra nonna di Vivianne Montias. Ma dopo l’8 settembre fu chiaro che l’Italia era divenuta un luogo altrettanto pericoloso: la famiglia di Valentina si nascose disperdendosi e scongiurò Augusto perché facesse altrettanto. Ma lui non credette che il fascismo avrebbe permesso quello che accadeva in Francia e non volle lasciare la sua casa. Sergio intanto aveva preso contatto con la Resistenza e viveva fuori Firenze. Sfortunatamente decise di andare a trovare i suoi proprio il giorno in cui la famiglia fu arrestata. Furono portati via tutti, Sergio con loro.

Testo che la bisnipote Silvia Servi leggerà alla posa delle pietre

Giuseppe Siebzehner era nato a Vienna terzo di cinque figli da padre polacco, Shaia Bradl, e mamma italiana, Marianna Vivanti di Mantova.
Amalia Koretz, detta in famiglia Malka, era nata in Cecoslovacchia, quinta di undici figli, da una famiglia che vantava fra i suoi antenati il rabbino Pinkhas di Koretz, uno dei fondatori del Chassidismo.
Giuseppe e Amalia si conobbero nella località termale di Karlsbad, si sposarono e vennero ad abitare a Firenze, dove Giuseppe aveva avviato un commercio di foglie d’alloro, e nel 1902 con l’aiuto di tre soci rilevò in via del Corso l’Emporio Bonaiuti, che poi divenne il Duilio 48.
Qui a Firenze nacquero i due figli Giorgio, mio nonno materno, e Federico, e in questa casa hanno abitato diversi anni, ospitando anche la nonna Marianna (conservo diverse foto di quegli anni sereni nel diario di mio nonno dal quale sono tratte le notizie che riferisco).
Giuseppe è sempre stato un uomo molto laborioso, fin da quando all’età di tredici anni, rimasto orfano del padre, fu mandato a lavorare nell’emporio di un conoscente a Trieste.
Fra i suoi detti che si tramandano in famiglia c’è questo: “chi non onora il soldo non merita la lira”, e lui conosceva evidentemente cosa vuol dire guadagnarsi da vivere. Con la ditta di famiglia ha dato da vivere a molte famiglie fiorentine, non si è mai dimenticato di accudire la madre, la sorella Eva, il cui marito Horvath, con il suo aiuto, aprì un ingrosso di giocattoli in Via del Giglio, e il fratello Ernesto, gravemente handicappato, per il quale fece costruire una palazzina sul lungomare di Viareggio, dove oltre all’abitazione al primo piano, al piano terreno aprì una succursale del 48.
Giuseppe non ebbe mai un’automobile, amava viaggiare in treno e visitare le località turistiche con la famiglia, si portavano dietro i cestini da viaggio preparati in casa, perché come lui diceva, “siamo dei cerotti”, soffrivano tutti di stomaco.
Il Duilio 48 fu requisito durante la prima Guerra, e di nuovo a causa delle leggi del 38, secondo la normativa fascista che vietava a un ebreo di possedere una ditta che impiegasse cento o più persone, affidando la gestione a un fascista di provata fede. Mia nonna raccontava che a un dato momento, quando la situazione stava precipitando, il gestore disse a Giuseppe di lasciare tutto a lui “tanto per lei signor Siebzehner non c’è più speranza”. Giuseppe non si fece intimorire: “se non ci sarò io, ci saranno i miei figli”.
Giuseppe e Amalia avevano carte di identità false, ma non fecero in tempo a usarle, furono denunciati e arrestati, oramai ottantenni e ammalati, in una casa di cura dove erano ricoverati. Dal treno che li portava a Auschwitz Giuseppe lanciò una cartolina su cui era scritto “In viaggio verso destinazione sconosciuta”.
Ringrazio tutti coloro che hanno reso possibile con la posa di queste pietre di restituire dignità umana a due persone troppo a lungo dimenticate.

(23 gennaio 2020)