Ricordarsi di ricordare
Leggo i molti commenti nel merito della memoria e dei suoi cascami istituzionali (di ciò si tratta, ed a ben pensarci è già in sé una contraddizione in termini: la memoria, infatti per sua natura, non si fa incapsulare dentro un formato precostituito quale, invece, una istituzione obbligariamente richiede per potere comunicare qualcosa di significativo) e dei tasselli di pensiero da costruire. Guardo poi la mia agenda per la settimana del 27 gennaio e rimango quasi un poco spiazzato dalla quantità di impegni che la affollano e dal rischio che si rivelino anche vuote liturgie, ancorché basate sulle migliori intenzioni. Non di queste ultime discutiamo, peraltro, posto che la ricezione pubblica di molti discorsi sul passato è ben più promettente di quanto non traspaia dalle rappresentazioni da talk show televisivo. Sarebbe altrimenti, a prescindere, un vuoto esercizio di retorica a buon mercato. Dubito peraltro che quella condizione dello spirito civile e dell’esperienza umana che definiamo con il termine per l’appunto di «memoria» sia come tale immediatamente trasmissibile; non almeno con quel sistema a catena di montaggio che sembra invece corrispondere ad una certa pedagogia civile ancora oggi prevalente. Dubito anche che ciò che noi riteniamo di potere e dovere offrire sia dagli altri accolto sempre e comunque come tale: troppo spesso ci dimentichiamo di vivere in un paese quasi totalmente cattolico, laddove la Chiesa esprime una storica egemonia culturale, il vero nocciolo perdurante dell’identità peninsulare. La qual cosa fa da filtro ad ogni forma di comunicazione civile, nel bene come in qualsiasi altro modo. Traduco in una sola frase, quindi, l’insieme delle idee che mi girano in testa: gli ebrei continuano a piacere, o per meglio dire a “sedurre”, solo se sono (e rimangono) vittime silenti e inerti. Per questo se ne celebrano i trascorsi, e le vestigia, ma si guarda con malcelata perplessità, per non dire di peggio, il presente. Ancora una volta la «questione sionista» (che ha sostituito, in alcune fantasie deliranti, la «questione ebraica»), laddove Israele assurge al ruolo di Moloch del male, a pare essere una cartina di tornasole di questa percezione che mi accompagna un po’ da sempre. Di cortocircuiti, in tal senso, ne ho purtroppo visti molti. In una mailing list, ad esempio, ho letto un post, e neanche tra i peggiori, che testualmente recita: «En passant ricordo che anni fa a Gaza furono uccise circa 1.400 persone tra cui centinaia di bambini, certo gli israeliani non sono bruti e tanto meno gli ebrei, ma chi ha voluto e compiuto questo e altri crimini contro l’umanità come si può definire? E l’omicidio di centinaia di civili è semplicemente una scelta politica? Dato che sono stato sia ad Auschwitz che a Gaza parlo con un minimo di cognizione di causa». Gaza come Auschwitz, insomma, entrambi parti di un progetto criminale e assassino. Laddove, essendo il secondo la metonimia del male, ciò che ad esso si associa diventa, automaticamente, la sua ripetizione. Con un effetto di traslazione da vittime a carnefici. Temo quindi che un certo modo di vivere la memoria istituzionalizzata (tanto più quando i politici entrano in gioco, come nel caso delle querelle sulle titolazioni della vie a Giorgio Almirante, parlando della necessità di una tanto ambigua, quanto inesistente, «memoria condivisa») generi, o perlomeno alimenti, soprattutto un’eterogenesi dei risultati. Se agli ebrei si è storicamente imputato di arricchirsi alle spalle dei gentili, speculando sulle disavventure di questi ultimi, oggi gli si attribuisce soprattutto la volontà di costruire una sorta di monopolio del dolore: un’unicità nel vittimismo, strategia attraverso la quale meglio “ricattare” i propri interlocutori, usando i loro sensi di colpa. È questa, tanto per dire, una delle declinazioni dell’antisemitismo islamista (“vogliono appropriarsi del senso del dolore, non avendone nessuna ragione – l’Olocausto, si sa, è una menzogna – ragion per cui meritano d’essere puniti spietatamente”), che si trasfonde in quello occidentale. Sul bisogno di sentirsi vittime, di essere riconosciuti come tali, e quindi di rivendicare un diritto imperituro al risarcimento permanente, si gioca tutto il discorso, petulante e ossessivo, dell’identità. La memoria indifferente – così va inteso quel tipo di esercizio comandato che detta alla società l’imperativo di ascoltare senza comprendere – ambisce a strappare agli ebrei il titolo fittizio, che da essi sarebbe stato usurpato” in chiave esclusivista, di vittime. Ma la storia, che deve anche raccontare delle nequizie trascorse, non può ridursi solo ad una carrellata di tragedie, dove le stesse nozioni di diritti, libertà, giustizia rischiano di essere appannate una volta per sempre. Non è vero che il ricordo del male sia un monito sufficiente in sé. Necessita ma non basta se si vuole fare i conti con il passato e costruire il presente. Una memoria attiva, allora, non è quella che innesca la competizione alla conquista dell’improbabile palma di vittima assoluta, ma quella che aiuta a comprendere quale sia la strada verso il rapporto tra giustizia, diritti e legittimità del potere e del suo esercizio. Senza di essa, c’è il buio della ragione.
Claudio Vercelli
(26 gennaio 2020)