Dietro quella scritta
L’ignobile scritta con cui a Mondovì qualcuno ha imbrattato l’ingresso della casa di Lidia Rolfi (partigiana e deportata politica nel Lager femminile di Ravensbrück scomparsa nel 1996) ci porta a fare alcune considerazioni ulteriori sull’antisemitismo riemergente e quotidiano dei nostri giorni, al di là delle tante cose dette e lette negli ultimi mesi. Può apparire inutile o addirittura cinico soffermarsi ad analizzare una simile manifestazione di infamia. L‘attenzione al suo significato nella dimensione attuale ci aiuta però a comprendere quali toni e quali direzioni assume oggi la pulsione antiebraica. Innanzitutto il messaggio: “Juden hier”, “qui ci sono ebrei” o “gli ebrei sono qui”; una sorta di avviso/marchio d’infamia. Poi il bersaglio: una deportata politica non ebrea (che Rolfi non fosse ebrea è certo cosa nota a tutti), anzi la sua memoria e la sua famiglia. Ancora i destinatari: il figlio di Lidia, i passanti o piuttosto presunti sodali, dato che il tono sembra stare a metà tra la minaccia e l’avvertimento? E poi il luogo: la casa di una partigiana perseguitata dal fascismo in una terra di partigiani e antifascisti. Infine il periodo: non a caso, i giorni dedicati alla memoria della Shoah e della deportazione. Proviamo a interpretare questi elementi.
L’autore del gesto vuole colpire e additare al disprezzo individui che considera inferiori e qualifica dunque come ”ebrei” nonché la loro dimora, ma perché e per chi lancia questo segnale? E perché l’offesa antisemita (“Juden” gettato sul muro come un corpo contundente) a chi ebreo non è? Evidentemente perché quella parola, “ebreo”, è ormai considerata da alcune aberranti menti vuote come la più offensiva delle ingiurie; e perché Lidia Rolfi e gli antifascisti perseguitati come lei sono assimilati ai nemici ideologici/razziali del nazifascismo, disprezzati come loro; si colpiscono dunque insieme: loro, il loro ricordo, il loro luogo, la loro famiglia. I destinatari della scritta sono certo innanzitutto gli obiettivi da colpire, cioè l’oggetto stesso dell’odio; ma dietro la violenza di quelle parole pare di cogliere un cenno d’intesa rivolto ad altri, quasi un invito a condividere quella violenza verbale, o addirittura a colpire ancora. I nazisti d’oggi si scambiano così gli inviti all’azione? Neppure la scelta della casa come luogo del gesto dimostrativo appare casuale. Suona anzi come una chiara minaccia: agli occhi di questi provocatori neanche il posto più personale e privato, la propria abitazione, deve apparire sicuro per quegli “ebrei” dei reduci partigiani, per la loro memoria e i loro congiunti. E l’arrogante orgoglio della sfida neofascista si coglie anche nella volontà di colpire a Mondovì, nel cuore di quella “Provincia Granda” così profondamente legata alla Resistenza. Colpire poi il nome di una deportata, di una delle “Donne di Ravensbrück” proprio in questi giorni è indice del preciso intento di oltraggiare il valore della Memoria e i suoi insegnamenti di solidarietà, di giustizia.
Ma perché fatti del genere avvengono in questa fase politica e sociale? L’inquietante episodio si rivela come una provocazione da parte di chi si sente sempre più sicuro nelle sue nostalgiche convinzioni. Il clima pesante che oggi pare attenuato, ma che per lunghi mesi si è respirato a vari livelli nel nostro paese; quell’atmosfera di velenoso rifiuto per la diversità che troppo a lungo ha ammorbato l’aria e di cui ancora si colgono gli effetti continua evidentemente a generare manifestazioni di sprezzante violenza. Sono segnali allarmanti da non sottovalutare, sintomi che devono spingerci a tenere desta l’attenzione.
La migliore risposta a un’azione così squallida e al suo retroterra ideologico è forse andare a rileggere l’intenso diario di Lidia Rolfi, pubblicato in Le donne di Ravensbrück (Einaudi, 1978): una lezione di storia e di vita. Eccone un breve assaggio:
“In questo periodo lavoro ininterrottamente al turno di notte. Ho iniziato a lavorare come Nachtschicht su consiglio di Genia, per sfuggire alla persecuzione di un’Aufseherin che regolarmente, ogni giorno, viene a prelevarmi e mi manda alla ferrovia a scaricare il carbone. E’ un lavoro duro, con il freddo che taglia il viso, spesso sotto la neve, a 20°, 30° sotto zero. Io non ho guanti e ho le calze al ginocchio. Le mani mi si riempiono di geloni, e sanguinano quando devo stringere la pala. Per questi lavori non sono previste manovali fisse: essi vengono fatti a turno dalle deportate delle varie Halle, e si rispetta una certa rotazione, ma può succedere che l’Aufseherin si diverta a perseguitare qualche deportata che non le va a genio. E l’Aufseherin della mia Halle puntualmente mi preleva sghignazzando e mi manda a scaricare carbone, mentre la civile, che pure potrebbe intervenire con la scusa di aver bisogno del mio lavoro, non interferisce e lascia fare. Anche Genia, nei primi giorni, non osa intervenire; poi, visto che il gioco si protrae, mi consiglia di chiedere il turno di notte e io accetto con entusiasmo per sottrarmi al supplizio giornaliero della corvée al carbone.”
David Sorani