Periscopio – Occhi aperti
sul passato

lucreziLe manifestazioni in occasione del Giorno della Memoria, anche quest’anno, si sono succedute, in tutte le più importanti città italiane, con una partecipazione molto ampia, da parte di studiosi, educatori, studenti, artisti, politici, uomini di Chiesa, rappresentanti delle istituzioni, Testimoni, semplici cittadini. A vent’anni dalla legge che, nel 2000, istituì, nel nostro Paese, questo momento di pubblica riflessione, non è dato di vedere nessun segno di affievolimento di interesse, nonostante i fisiologici meccanismi di assuefazione, saturazione, noia, che dovrebbero portare ogni interesse, col tempo, a scemare.
Certo, tutto passa, un giorno scomparirà anche il genere umano e, con esso, ogni forma di ricordo. Ma il Giorno della Memoria, evidentemente, non ha ancora fatto il suo tempo; continua, anzi, a crescere, a espandersi, andando a coprire un lasso temporale sempre più ampio (che occupa ormai, in pratica, l’intero mese di gennaio). La memoria si moltiplica, accade sempre più spesso che non si parli solo della memoria della Shoah, ma anche della storia della memoria, della “memoria della Memoria”. E questa grande, profonda, diffusa domanda di comprensione, di conoscenza, di condivisione, questa sofferta e urgente richiesta di una spiegazione, di un filo di Arianna, di una via di uscita dal labirinto, che ho letto negli occhi di centinaia di ragazzi – attenti, vigili, partecipi -, è un motivo di speranza. E di responsabilità.
Tra i molti interventi che ho ascoltato e a cui ho avuto modo di partecipare, voglio segnalare solo due toccanti relazioni pronunciate, lunedì 27 e martedì 28, dalla giovane studiosa Camilla Balbi, già nominata in passato su queste colonne, dedicati al “Childrens’ Memorial” di Yad Va-Shem (lunedì 27, presso la Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Napoli, nella manifestazione organizzata dal Centro Interuniversitario di Ricerca Bioetica) e poi al tema “Arte e Memoria” (martedì 28, presso il Centro “Marte” di Cava de’ Tirreni). In entrambe le occasioni, la Balbi, prendendo in esame alcune tra le più importanti manifestazioni artistiche del Novecento, ha sollevato importanti domande riguardo alla possibilità di dare espressione, in forme figurate, a sentimenti ed emozioni che, per la loro immensa portata di dolore, incredulità, sgomento, paiono andare al di là dei confini della parola, del linguaggio.
Come può essere interpretata, al giorno d’oggi, la famosa frase di Adorno, secondo cui, dopo Auschwitz, sarebbe venuta meno, per sempre, ogni possibilità di fare poesia? Per molto tempo, ogni approccio artistico con la nera voragine del XX secolo, con quella che è stata definita la “morte” o “l’eclissi di Dio”, è stata considerata impossibile, se non blasfema. Eppure, da alcuni decenni, nonostante tutto, la Shoah pare essere al centro dell’attenzione, sulle due sponde dell’Atlantico, di molteplici forme di linguaggio artistico – narrativa, poesia, figurazione, teatro, musica, cinema, fumetto -, nel solco di una tendenza che non dà segni di rallentamento.
Deve essere considerato, questo – domanda che ricordo di avere già sollevato, in passato -, un fenomeno positivo, o negativo? Un modo di ricordare, o di dimenticare? Di ‘normalizzare’, forse, una “memoria impossibile”? Come è stato detto, la frase di Adorno era già, essa stessa, poesia. Forse, come ho già avuto modo di notare, dove la ragione non arriva, solo all’arte possono essere rivolte delle domande che non trovano, e non possono trovare, risposta. Ma la cosa principale che vorrei sottolineare, alla luce delle parole di Camilla, è che il rapporto tra arte e Memoria non è tra due concetti statici, immobili, ma tra due entità capaci di trasformare intimamente la reciproca natura: l’arte, una volta indirizzata all’interpretazione della Shoah, diventa qualcosa di diverso, va a svolgere una funzione nuova e inedita, e andrebbe probabilmente definita con altre parole, andandosi ad avvicinare, come mai prima, all’etica, la filosofia, la religione. O, forse, a nessuna di queste cose: se l’estetica è la scienza della realtà sensibile (e si colloca, così, in uno spazio diverso da quello della filosofia cd. teoretica, la scienza dell’essere, e della filosofia morale, la scienza del “dover essere”), l’estetica della Memoria cerca di dare forma alla conoscenza di una realtà inesprimibile e inattingibile: una conoscenza del buio.
Ma anche la Memoria, una volta affidata al linguaggio figurativo – come, per esempio, quello del Childrens’ Memorial, che è, oltre che un terribile memoriale, anche uno straordinario monumento artistico – diventa qualcosa di diverso, capace di incidere non solo sulla nostra coscienza e razionalità, ma anche su corde segrete, o nascoste, della nostra immaginazione. Rendendo possibile distillare dei messaggi oscuri, sigillati, da immagini impossibili da contemplare: come, per esempio, quella, mostrataci da Camilla, del sorriso luminoso del piccolo Uziel Spiegel, il bimbo di tre anni, ucciso ad Auschwitz, il cui ricordo indusse i genitori, sopravvissuti alla Shoah, a promuovere il progetto del Childrens’ Memorial, splendido e atroce tempio di dolore.
Impossibile guardare quegli occhi, quel sorriso. Ma anche vietato chiudere gli occhi, distogliere lo sguardo.

Francesco Lucrezi