I palestinesi e la pace
Le reazioni palestinesi al piano di pace presentato dal presidente Donald Trump seguono un copione già visto tante altre volte: rabbia, collera, bandiere americane e israeliane bruciate, grida di vendetta e via di questo passo.
Non c’è dubbio che, dal punto di vista territoriale, il piano Trump sia meno favorevole ai palestinesi di quello presentato da Bill Clinton a Camp David nell’estate del 2000 e ancora meno di quello proposto, poche settimane dopo, dal premier israeliano Ehud Barak, che si spingeva a concedere ai palestinesi la sovranità su metà della Città Vecchia di Gerusalemme, entrambi respinti da Yasser Arafat. A sua volta i piani proposti nel 2000-2001 erano, in assoluto, meno favorevoli ai palestinesi del progetto di divisione della Palestina mandataria approvato dall’Assemblea generale dell’ONU il 27 novembre 1947 e respinto in blocco dagli arabi. Volendo, si potrebbe risalire ancora più addietro, al piano Peel del 1937, che avrebbe limitato il territorio del futuro Stato ebraico a una piccola striscia costiera, lasciando il resto della Palestina mandataria agli arabi, piano anch’esso respinto dalla dirigenza palestinese d’allora.
Quindi nessuna meraviglia per il rifiuto da parte della leadership palestinese – sia dell’OLP che di Hamas e della Jihad islamica – della proposta di Trump: il piano che almeno l’OLP sarebbe disposta ad accettare (per Hamas e la Jihad islamica il problema non si pone nemmeno) è sempre quello precedente, quello che è stato respinto quando era stato presentato.
Una delle caratteristiche che maggiormente colpisce nella logica della leadership palestinese è l’assenza della nozione di tempo: essa si ritiene titolare di diritti eterni che la vicenda storica non scalfisce. Che dal 1947 al 2020 la situazione politica, economica, demografica dei territori che componevano il mandato britannico sulla Palestina si sia radicalmente modificata, anche a causa del fallimento dei tentativi arabi di modificare con la forza – con le guerre o con il terrorismo – la situazione creata dalla nascita dello Stato d’Israele, sembra non scalfire minimamente le posizioni palestinesi.
Pertanto è di dubbia utilità cercare di comprendere quali potrebbero essere i comportamenti della dirigenza palestinese di fronte a proposte di segno diverso: la prova è già stata fatta e il fallimento di Camp David nel 2000 ha segnato un punto di non ritorno, creando uno stallo che non si vede come possa essere modificato se non con proposte radicali come quella di Trump.
Ciò che invece è interessante sono le reazioni dei Paesi arabi, che si sono notevolmente modificate dai tempi della conferenza di Kharthoum del 1° settembre 1967, quando, alla proposta israeliana di restituire i territori occupati con la guerra dei Sei giorni in cambio del riconoscimento della propria esistenza e quindi della pace, fu risposto con i noti “tre no”: no alle trattative con Israele, no al riconoscimento di Israele, no alla pace con Israele. E’ una modifica che è stata costruita nel tempo e che ha avuto un impulso decisivo nella crescente minaccia dell’Iran all’equilibrio del Medio Oriente.
Altrettanto interessanti, ma in senso opposto, sono le reazioni che si profilano in Occidente, in particolare da parte della Francia e dell’Unione Europea che continuano a illudere i palestinesi con promesse di sostegno che poi non hanno e non possono avere alcuno sbocco reale, ma che contribuiscono a spingere la dirigenza palestinese ad assumere posizioni intransigenti.
Se si guarda la situazione italiana, siamo di fronte a un rimescolamento delle carte che rende difficile prevedere quale possa essere, in futuro, l’orientamento delle forze politiche e in generale dell’opinione pubblica. Il dato nuovo è costituito dalla presa di posizione ostentatamente filoisraeliana da parte del più forte partito italiano, la Lega, e in particolare del suo leader Matteo Salvini. Di fronte a questa posizione, quella del M5S resta fondamentalmente filopalestinese, con punte di antisionismo radicale. Nel PD sono presenti posizioni diverse, ma si fanno sentire le posizioni tradizionali di sostegno alla causa palestinese maturate nel corso di una lunga vicenda e una pregiudiziale ostilità nei confronti di Trump
Ma sono significative non solo le prese di posizione dei partiti. Nei media è possibile trovare elementi di riflessione che vanno in varie direzioni anche se resta prevalente quella critica nei confronti del piano Trump. Un esempio significativo lo troviamo nelle posizioni di “Avvenire”, portatore delle posizioni dei vescovi italiani, che mercoledì 29 gennaio, a poche ore dalla presentazione del piano Trump, pubblica un articolo di Giorgio Ferrari il cui titolo “Un’offerta che non si può non rifiutare?” è già un invito (si potrebbe anche dire un’istigazione) a rifiutare il piano Trump, appena mascherato dal punto interrogativo, e la cui faziosità è messa in evidenza dal porre sullo stesso piano, a proposito del fallimento del piano di Bill Clinton del 2000, Ehud Barak e Yasser Arafat, chi accettò il piano e chi lo rifiutò.
Valentino Baldacci