“Testimoni del non-provato”
Ringrazio tutti gli organizzatori per l’invito a questa prestigiosa iniziativa. Il ringraziamento non è solo formale: questo invito mi ha infatti costretto a tornare su un lavoro lungo e faticoso, concluso dodici anni fa. Ma, in quanto percorso di memoria – come cercherò di spiegare – mai concluso veramente.
Mi riferisco al mio libro Testimoni del non-provato. Ricordare, pensare, immaginare la Shoah nella terza generazione (Carocci, 2008, realizzato grazie al Fondo Internazionale Assistenza alle Vittime delle Persecuzioni Naziste, legge 249/2000, gestito dall’Ucei), nel quale l’elaborazione personale delle mie memorie di figlia di ebrei che hanno subito le persecuzioni fasciste e naziste da bambini si intreccia ai racconti di 23 intervistati della mia stessa generazione.
Ho chiamato questa generazione la “terza” perché la nostra memoria delle persecuzioni è mediata dal vissuto infantile dei genitori e da quello adulto dei nonni; ma anche perché, negli ultimi 30 anni, siamo stati noi stessi testimoni di una sorta di terza fase della memoria, rispetto al formarsi del ricordo durante lo svolgersi degli eventi e alle tendenze memoriali del dopo-guerra.
Questa terza epoca è caratterizzata da due trasformazioni:
1. il passaggio da un’“amnesia collettiva” che, per decenni, nel dopoguerra, in Italia e in Europa, ha relegato le persecuzioni e lo sterminio degli ebrei a memoria quasi esclusivamente privata e silenziosa (più lutto che memoria), alla memoria istituzionalizzata e celebrata pubblicamente.
2. Il passaggio dalla cosiddetta “era del testimone” che ha messo le testimonianze dirette delle vittime al centro della costruzione della storia e della memoria (con meriti ma anche problemi e rischi, che non c’è qui il tempo per analizzare), alla ormai prossima storia e memoria senza testimoni.
Forte era, già negli anni 2000, l’angoscia dei miei intervistati di fronte allo scomparire di nonni e genitori, testimoni diretti, e al ruolo cruciale di “nuovi testimoni” o “testimoni dei testimoni” che, già allora, erano chiamati a incarnare. Per anni, nelle famiglie ebraiche decimate e lasciate sole nel proprio silenzio traumatico, senza un’accoglienza morale e materiale, una comprensione della portata universale della ferita subita, per i figli era “vietatissimo” o pericoloso “toccare” le “scatole nere dei ricordi” (per usare parole dei miei intervistati). Al tempo stesso (come hanno ben spiegato psicologi e psicoanalisti), i nati dopo erano inconsciamente chiamati a incarnare queste stesse scatole: come “candele” o “cripte” della memoria. Nell’epoca delle giornate della memoria è diventato un dovere morale aprirle e consegnarle pubblicamente. Figli e nipoti – senza aver avuto il tempo di prendere coscienza ed elaborare morti, vuoti, meccanismi traumatici e simbiotici -, si affrettano tutti a intervistare, filmare, “spremere fino in fondo i sopravvissuti” (Letizia), viaggiare sulle tracce del passato scomparso.
L’angoscia e il trauma non elaborati e non elaborabili prendono le sembianze di un dovere ossessivo:
Sabrina: dovremmo farlo=dovremmo farlo=dovremmo farlo, fargli domande=farli parlare=perché questa è una memoria che sparisce=svanisce!
Dovere fatto di “sfide”, “compiti”, “missioni”: che sembrano conoscitivi e testimoniali, al fine di assumere al meglio il ruolo di “nuovi testimoni”, ma che in realtà, a tratti, nelle loro narrazioni, rivelano la propria natura di impossibili “viaggi indietro nel tempo” per “bloccare il nazista”, “salvare” genitori, nonni, zii e resuscitarli.
E infatti “dovere di cosa?” si chiede Sharon che è già di quarta generazione. Rischia di non sapersi più:
Sharon: “un’esperienza che vorrei fare, è andare in Polonia [cioè ad Auschwitz] […] mi sento una cosa che… che devo fare […] sono cose che devi fare. Mi sento in dovere! Non mi chiedere di cosa, però mi sento in dovere”.
Nel vuoto di questi doveri immemori e missioni impossibili rischia di risuonare l’eco della minaccia nazista (quella che Levi, in I sommersi e i salvati, spiega molto bene come “guerra nazista contro la memoria”) che torna a sigillare il passato “nella testa” degli ebrei e a ribaltare i fatti in finzioni folli, non comunicabili, non credibili, non traducibili in storia documentata e memoria condivisa.
Daniele capovolge, infatti, in un’“idea della sua testa”, “immaginaria”, “emotiva”, “traumatica” il fatto storico del largo consenso al nazismo e al fascismo. Persino la retata degli ebrei romani, il 16 ottobre del 1943, rischia di trasformarsi in una sua fantasia, per l’ossessione documentale del fornire prove e per il malessere di non sapere con esattezza quando, per la sua famiglia è iniziata la clandestinità. A Sharon quella storia sembra così “strana”, “inverosimile”, “inspiegabile” che finisce per sentirsi “strana” lei stessa e pensare che “tutto quello che è stato” è solo una “creatura della sua testa”.
Anche all’origine del mio percorso di memoria e del mio libro vi è la presa di coscienza di un vuoto angoscioso da cui, fino a quel momento, la mia memoria era soltanto “abitata”.
Mia madre, nata a Roma nel 1940, a differenza della maggior parte dei testimoni diretti, mi ha sempre raccontato di quelle vicende, per fortuna a lieto fine, della sua prima infanzia. Eppure io non ricordo nulla se non il suo pianto e la mia angoscia. La bambina perseguitata, in fuga dai nazisti, nascosta, sotto falso nome, ero io: questa era la storia; non avevo bisogno di sapere altro.
Negli anni ’90, nel clima generale di rinnovato interesse memoriale e storiografico nei confronti della Shoah, iniziai a capire come quel passato rischiava di restare un’angoscia vuota, sepolta dentro la mia testa: senza spazio, tempo, ricordi e storie da raccontare.
Sempre in quegli anni, ho collaborato a un progetto di interviste a testimoni di prima generazione. La mia memoria ha cominciato a popolarsi di storie, volti, date, documenti, luoghi, strade di Roma dove passo tutti i giorni.
Solo allora ho scoperto con stupore che il convento di suore di clausura, dove mia madre e mia nonna furono nascoste sotto l’occupazione nazista, esiste davvero, qui a Roma, in via Lanza. E ancora mi sorprende, quando percorro l’Autostrada del Sole, l’indicazione dell’uscita per Magliano Sabina: il paese nella campagna laziale che ospitò per qualche mese la mia famiglia.
Nel tornare su queste memorie per la giornata di oggi, ancora una volta ho sperimentato che ricordare non è mai riaprire un cassetto e ritrovare intatta la madelaine, ma è sempre un percorso dinamico, un cantiere in costruzione, un incontro trasformativo al tempo stesso con il passato e il presente.
Lo spunto per un modo nuovo di tornare a queste memorie me l’ha data un recentissimo viaggio in Andalusia, in particolare, ancora una volta, un senso profondo d’angoscia e di vuoto che non riuscivo a placare, nonostante la spensieratezza della vacanza e il fascino delle architetture che visitavo. Le antiche moschee restano riconoscibili, pur nel gesto di appropriazione, umiliazione e sottomissione architettonica delle cattedrali in cui sono state trasformate. Dell’ebraismo nessuna traccia, se non i nomi delle strade, la minuscola sinagoga di Cordova, qualche ricetta “sefardita” nei menù. Per lo più il nulla, la cancellazione portata a compimento.
Eppure gli ebrei e l’ebraismo sefardita sono sopravvissuti, con le loro tradizioni, la loro cultura, la loro lingua.
È noto, fino a sfiorare il luogo comune, che l’ebraismo sia cultura del tempo più che dello spazio, della parola, dei riti e dei gesti più che delle architetture e delle arti. Credo tuttavia che, nella sua capacità di resistenza e sopravvivenza alle distruzioni, nel suo modo di esistere nella pratica del ricordo, vi siano anche doti architettoniche ed estetiche. Ovviamente dando a questi termini un senso lato e simbolico. E proprio in questa esigenza di una dimensione simbolica, ‘architettonica’ ed ‘estetica’ vorrei indicare il compito che ci spetta – a noi tutti, ebrei e non ebrei – di portare avanti la storia e la memoria della Shoah, pur nel vuoto dei testimoni diretti.
Viaggiando per l’Andalusia tra le trionfali cattedrali, nel vuoto di tracce ebraiche, mi è venuto in mente mio nonno, Angelo Di Castro, importante architetto romano, cacciato dall’albo a causa delle leggi razziste del ’38. Ho ripensato in modo nuovo al Tempio di Livorno, da lui progettato e realizzato proprio nell’immediato dopoguerra, nel quale il ricordo degli ebrei assassinati si traduce nella riaffermazione dell’identità ebraica, nella spinta vitale di una forma e di uno spazio architettonico: pubblico e non più clandestino, moderno e insieme antichissimo. E ho pensato al miracolo di come i miei nonni, attraverso i miei genitori, siano riusciti a trasmettermi proprio questa costruttiva spinta vitale, e non la distruzione, l’etica della bellezza e la bellezza dell’etica per il tramite dell’ebraismo, e non un vuoto di valori o la paura. Sincronicità della psiche individuale e collettiva: proprio il 27 gennaio l’Ordine degli architetti ci ha invitato a una cerimonia per annullare simbolicamente la cancellazione dall’albo di mio nonno e di altri architetti romani.
Ma viaggiando per l’Andalusia, mi sono ricordata anche di altri due nonni adottivi, mie costante muse ispiratrici: Primo Levi e Walter Benjamin.
Scrive Levi, in Se questo è un uomo:
“La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente […]. Si tratta di un prezioso lavorio di adattamento, in parte passivo e inconscio, e in parte attivo.”
Si potrebbe rileggere tutta l’opera di Levi – come testimone, scrittore, artista e chimico – come una sorta di ‘architettura’ della sopravvivenza e della memoria, come il tentativo di gettare “ponti” (immagine ricorrente nei testi di Levi) tra il passato e il presente, tra il mondo rovesciato di Auschwitz e il mondo ordinario, tra la demolizione della morale, del linguaggio, della logica messa in atto dai nazisti e il dovere ineludibile di dire, conoscere, comprendere, giudicare, tra i sommersi e i salvati, tra i nazisti e noi stessi che “apparteniamo alla stessa famiglia umana”.
Levi, così come Walter Benjamin, pensatore per eccellenza della memoria, (anche egli ebreo e, non solo vittima dei nazisti, ma anche tra gli intellettuali che meglio hanno saputo, in contemporanea, comprendere e denunciare i fascismi europei) sa che la memoria non è un souvenir che trasporta o resuscita il passato nel presente, il testimone di una staffetta che semplicemente si passa di generazione in generazione, si celebra o si espone in un museo. La memoria è piuttosto la costruzione mai definitivamente compiuta di questo ponte: costruzione difficilissima perché “sospesa sul vuoto” – come spiega Faussone nel capitolo intitolato appunto “Il ponte” del libro La chiave a stella -. Costruzione che necessita quindi di arte, immaginazione e manutenzione e non solo di precisi calcoli matematici.
Vi è un modo di trasmettere il passato, avverte Benjamin, che, indipendentemente dai contenuti e dai valori che vuole salvaguardare, è più disastroso della sua scomparsa”: “la sua celebrazione come un patrimonio ereditario”. La memoria degli oppressi non va solo salvata e tramandata, ma anche istituita, ogni volta di nuovo. Il tempo è “salvato” o “ritrovato” attraverso il ricordo, perché la memoria non è ciò che resta del tempo, ma l’interruzione di un tempo come destino. Ricordare, spiega Benjamin, è il “gesto” critico che, in ogni momento, ricorda il dimenticato della memoria stessa e impedisce al “nemico di continuare a vincere”. La memoria è la condizione di un tempo come possibilità, l’apertura di uno “spazio immaginativo”, l’immaginazione e la costruzione di un futuro diverso.
“Testimoni del non-provato” chiamo, citando Maurice Blanchot, i miei intervistati di terza generazione, perché, indipendentemente dalle vicende più o meno tragiche subite da genitori e nonni, sentono tutti le persecuzioni, le deportazioni e lo sterminio iscritti “sulla propria pelle” come se si trattasse di esperienze in prima persona: “come se fossi stato io ad Auschwitz”, “come se in culla mi avessero detto «Guarda! Il prigioniero ad Auschwitz sei tu»”, ripetono ossessivamente tutti gli intervistati. La “storia infinita” la chiama Gioia.
Non intendo con ciò dare a figli e nipoti, il ruolo sostitutivo di testimoniare, come se la memoria fosse un’investitura, se non addirittura una trasmissione genetica (secondo il modello razzista, fascista e nazista). Né, ancora una volta, di fronte ai rigurgiti neo-fascisti, farci noi “nati dopo” “prova vivente” (parole di un mio intervistato) di quegli eventi, al posto dei parenti scomparsi. “Testimoni del non-provato” non vuole essere una formula o una rivendicazione identitaria a partire dalla memoria o dal trauma, ma la condizione stessa della memoria in generale: perché c’è sempre nel rapporto del presente col passato – e non solo nel momento di scomparsa dei testimoni diretti – qualcosa di “non provato”: un rischio, una mancanza, qualcosa di perduto, di non compreso, ma anche qualcosa di inedito, di non ancora immaginato, pensato, realizzato.
Solo la manutenzione e la costruzione di questo “spazio”, tra il “non più” e il “non ancora”, dall’interno della ferita e della frattura in cui inevitabilmente, noi tutti, ebrei e non, ci troviamo a nascere, consentono di interromperne “la storia infinita”.
Purtroppo non c’è modo di argomentare come sarebbe opportuno la mia proposta di una dimensione ‘architettonica’, simbolica, ‘estetica’ nel portare avanti il compito della memoria della Shoah in assenza di testimoni. Mi limito a darvi alcuni esempi attraverso i racconti dei miei intervistati.
Negli anni in cui nelle famiglie ebraiche regnava il silenzio, ma silenzio fortemente traumatico, contagioso e simbiotico, i miei intervistati si son trovati involontariamente costretti a costruire “argini” protettivi e difensivi, surrogati immaginativi e interpretativi:
Josef: questo silenzio, questo dolore, […] si trattava di un- di un dolore (.) talmente grande! che non poteva essere raccontato! che una parola o un nome, rischiava, di incrinare, una cosa, non so come una diga no? basta un buchino piccino piccino (.) per far esplodere tutto.
Michele: costruisci dei fantasmi di qualcosa che non t’hanno spiegato che cos’è, ti hanno detto solo il nome.
Noemi: a casa mia c’è una vera congiura del silenzio intorno a queste vicende.
Noemi racconta che solo da grande, origliando conversazioni e sbirciando fotografie dentro a una vecchia “ribalta” proibita ai figli, ha scoperto l’esistenza di una sorellina del padre, deportata nella retata romana del 16 ottobre del 1943 e assassinata ad Auschwitz.
Noemi: di questa (.) bimba che avrebbe dovuto diventare mia zia (.) non solo non- non- c’è stato offerto un racconto, ma non esiste un luogo! […] a questo buco! Non c’è stato-, […] proprio un appiglio! Se non, questi frammenti di ricordo, poche parole smozzicate rubate, […] per me, insomma su questo poi s’è creato, un mondo intero!
Anche nella famiglia di Noemi, la “congiura del silenzio” ha cominciato a sciogliersi negli anni ’90, grazie a una maggiore attenzione pubblica nei confronti di quel passato. Molti genitori e nonni riescono a raccontare in famiglia le loro vicende solo dopo averle testimoniate pubblicamente in cerimonie cittadine, incontri nelle scuole o viaggi ad Auschwitz. L’accoglienza dentro le città apre le “ribalte proibite” dentro le case. La liberazione della parola non scioglie affatto la sofferenza, ma gli intervistati, insieme a una maggiore conoscenza dei fatti, iniziano a prendere coscienza dei meccanismi della memoria e spesso a intraprendere dei percorsi “ricostruttivi”, “trasformativi” “dentro questa cosa” (sono ancora le parole di Noemi), con la possibilità di diventare ‘architetti’ più consapevoli.
Noemi vive nella casa dove, ai tempi delle persecuzioni viveva sua nonna, accanto alla casa da cui la piccola zia, la bisnonna e il prozio sono stati deportati il 16 ottobre. Noemi mi ha spiegato che la nonna invece è riuscita a salvarsi perché sulla sua porta di casa non c’era affisso il nome (cognome tipicamente ebraico che sarebbe stato facilmente riconoscibile), presente invece su quella della bisnonna. Nonostante questo, la nonna nel dopoguerra ha appeso la targhetta con il nome. Noemi confessa con molta fatica e sofferenza – perché razionalmente sarebbe contraria, anzi, “disgustata” da questo atteggiamento – che lei questo coraggio, in quella casa, non ce l’ha, tanto che dopo anni ancora non riesce ad appendere sulla porta di casa la mezuzà come invece desidererebbe fare (piccolo astuccio, contenente un con i primi due brani dello Shemà che gli ebrei attaccano agli stipiti delle porte di casa e sulle porte della città). Verso la fine dell’intervista però si interroga se non sia “venuto, il momento di cambiare casa” e andare in un posto dove sentirsi “libera di scegliere se mettere il nome” e “la mezuzà sulla porta […], pensando di risponderne soltanto a me stessa, e non ai fantasmi […] che abitano questa casa”.
“Non è che abbia mai raccontato… con qualcuno della mia esperienza” in relazione alla memoria della Shoah, dice Letizia, facendo un errore sintattico: “con” anziché “a qualcuno”. Come se solo con qualcuno quell’esperienza possa, non solo raccontarsi, ma costruirsi come esperienza e memoria effettive. Anche io, come ho detto prima, alla fine degli anni ‘90 mi resi conto di ciò e sentii forte il bisogno di confrontarmi con i miei coetanei. Le storie dei miei intervistati, nelle loro irriducibili specificità e differenze, sono diventate un pilastro della mia stessa memoria, in un dialogo continuo che la legittima, la supporta, la rafforza, la amplifica, la trasforma.
Nella mia famiglia non si è mai appesa la mezuzà sulla porta, eppure, quando è morta mia nonna paterna, proprio a me è stata affidata la sua mezuzà, ma per anni l’ho lasciata in un cassetto. Qualche anno fa, rimettendo le mani su queste memorie, mi è tornata in mente la storia di Noemi, il suo desiderio-timore di appendere questo segno ebraico sulla porta della casa che era di sua nonna e ora è sua. Ho riunito tutta la mia famiglia in una festa bella e gioiosa e tutti insieme abbiamo appeso la mezuzà di mia nonna sugli stipiti della mia casa.
Grazie a Noemi e a tutti i miei intervistati. Grazie ai nostri genitori e nonni, “salvati” e “sommersi”. Grazie a voi che siete qui ad ascoltare, immaginare e costruire spazi individuali e collettivi, pubblici e privati di memoria.
Raffaella Di Castro – Tavola rotonda “I figli del dopo”
(30 gennaio 2020)