Libri, nomi, prestigio
Qualche mese fa leggendo il romanzo La moglie del rabbino di Chaim Grade mi ero lasciata suggestionare dalle inattese somiglianze: le fratture all’interno di una comunità ebraica, le polemiche tra rabbini alimentate più dai loro seguaci che da loro stessi, il ruolo della donna nell’ebraismo ortodosso. Va detto, però – come ha fatto notare la traduttrice Anna Linda Callow presentando il libro a Torino – che non c’è bisogno di andare a caccia di somiglianze per rendersi conto di quanto il libro sia attuale: anche se non siamo più nella Lituania degli anni ’20-‘30 del secolo scorso, quel mondo charedì (quello che viene solitamente definito “ultraortodosso”) non chassidico non è affatto scomparso, come talvolta si tende a credere, e ancora oggi, come nel romanzo, è spesso lacerato da fratture, tra cui – tuttora assai rilevante – quella tra sionisti e antisionisti.
È un mondo – ha spiegato la Callow – fondato su una sorta di aristocrazia del sapere, in cui i libri scritti da ciascuno studioso si possono paragonare a ciò che in altre culture sono i possedimenti in quanto sono le principali fonti di prestigio individuale, al punto che spesso gli autori sono designati con il nome delle loro opere, come nel caso del Chazon Ish (Avrohom Yeshaya Karelitz), che fu maestro di Chaim Grade e che forse è adombrato in uno dei personaggi del romanzo. Da insegnante di lettere non ho potuto fare a meno di notare che in italiano si tende a fare esattamente il contrario: non è l’autore a venire chiamato come l’opera, ma talvolta è l’opera a prendere il nome dell’autore. “Domani portate Dante”, “sto leggendo Manzoni”, ecc. Si fa così persino con Omero, che a rigor di logica non è neppure una persona reale (o, per lo meno, non si sa). Viceversa, se si prova a cercare “Chazon Ish” su internet, si trovano molto più facilmente riferimenti alla persona che alla sua opera. Dunque, chiamare gli autori con i nomi dei loro libri non li fa scomparire nella loro individualità ma, anzi, forse in qualche modo la esalta. Non saprei dire se sia un bene o un male. Mi limito a notare che per certi versi questa identificazione può rivelarsi un’arma a doppio taglio: se da un lato non possiamo non ammirare una cultura in cui il prestigio si fonda sulla sapienza anziché sulla ricchezza o sulla forza, dall’altro c’è il rischio che agli occhi di qualcuno (come per esempio Perele, la protagonista del romanzo) il contenuto di un testo passi in secondo piano rispetto al prestigio che ne deriva per il suo autore. Ma questo non accade solo nel mondo charedì, e certamente non solo nel mondo ebraico.
Anna Segre