Avviso ai naviganti

claudio vercelliÈ scoraggiante leggere molte delle comunicazioni sui social network. Ce lo siamo già detti ma dobbiamo continuare a ripetercelo: la propensione all’aggressività e, con essa, al deragliamento di ogni forma residua di ragionevolezza e razionalità, è immediatamente dietro l’angolo. Si scade da subito nell’invettiva, nell’epiteto, nell’ingiuria. Qui sta il vero habitat delle nuove intolleranze, prima ancora che nei gesti fisici esercitati con il ricorso alla forza materiale. Si tratta di una decadenza morale e civile che ammorba una parte della collettività, brutalizzandola nel momento stesso in cui si esprime con tonalità vessatorie. Come capita sempre in tali situazioni, la liberazione dai freni inibitori, ovvero di ogni criterio di ponderazione nel giudizio, viene fraintesa dai molti, giustificandola in quanto legittima manifestazione di un falso diritto, quello alla prevaricazione attraverso l’enfatica espressione di sé. Il bullismo virtuale è una vera e propria epidemia. Una sorta di invasione dei bassi istinti che, come delle molecole autonomamente impazzite, si muovono con un solo obiettivo, quello di fare cascare qualsiasi tentativo di contenere dentro un perimetro di ragionevolezza la qualità delle comunicazioni. In un gioco perverso, demenziale, a tratti paranoide, tutti debbono esserne trascinati dentro: un po’ come l’idiota compiaciuto, quello che crede di fare un gesto inedito e innovativo, iconoclasta e suggestivo, lanciando dello sterco contro la tela d’artista. A volere dire che feci ed arte si equivalgono, poiché in fondo, “uno vale uno”. Puerilità, regressività e infantilizzazione di massa, spacciate per “libera espressione”, sono le vere matrici di queste condotte, che nascondono una sostanziale incompetenza e, soprattutto, impotenza collettiva. Hate speech e fake news si manifestano – e “giustificano” quindi la loro ragione d’essere – dentro questo brodo primordiale di coltura, che si pensa come un sistema di indignazione permanente quando, così facendo, evidenzia semmai il grave stato di confusione (non solo mentale ma anche morale) nella quale navigano non poche persone. Gli attacchi personali, tali poiché con tanto di nomi e cognomi di coloro che ne sono fatti obiettivo, attraverso il meccanismo dell’esposizione al pubblico ludibrio e alla denigrazione collettiva le condotte, i pensieri e le opinioni altrui, è parte integrante del dispositivo che conosciamo con l’altrimenti vago nome di “razzismo”. Non si tratta di fornire un’accezione inutilmente estensiva di quest’ultimo termine ma di capire quale sia il contesto (c’è sempre un contesto dove le malattie dell’animo umano si possono propagare come se fossero virus e batteri) nel quale cascano i percorsi di disumanizzazione. Che non colpiscono solo i “diversi” da noi, ma noi medesimi quando diventano etichette da appiccicare a chi ci è più vicino. In una sorta di vera e propria guerra civile, fatta però con il tripudio delle parole e non delle pallottole. Tali considerazioni sarebbero inutili in queste pagine, tra queste righe, in questo sito, se non fosse per il fatto che la propensione all’offesa è presente in non poche attività mediali, a partire dall’uso – spesso incauto – dei social media, anche da parte di certuni che le frequentano. Che siano iscritti a qualche Comunità o siano amici. Ciò che è spacciata come legittima indignazione, ovvero come esercizio del proprio diritto di critica, è l’asfissiante reiterazione dei medesimi moduli di comunicazione, basati sull’annichilimento virtuale del target, sulla più totale autoindulgenza (“ho ragione a prescindere”), sulle argomentazioni circolari (quelle che non dimostrano nulla, servendo solo a ripetere il medesimo concetto eretto a sistema di verità) e su un’assertività che non concede nessun scambio, essendo funzionale solo all’affermazione di sé. Elementi che sono particolarmenti accentuati nel caso della discussione sull’operato di alcune istituzioni, ebraiche e non, quand’esse risultino non gradite a chi si esercita nel tiro a segno. La demenzialità di un tale modo di procedere è manifesta dal momento che in una sorta di pensiero bipolare tipico dei complottisti e quindi dei lucidi paranoidi, tutto viene ricondotto e schiacciato tra «destra» e «sinistra», ossia tra «fascisti» e «comunisti», eternizzando un tempo che fu, le cui categorie sono usate come un manganello virtuale. Anche il dibattito, in sé delicatissimo poiché pieno di implicazioni, su antisemitismo e antisionismo, viene travolto da una sorta di onda di piena, distribuendo gratuitamente (e in tale modo però anche distruggendone l’effettivo valore) etichette un po’ ovunque. Un rivestimento fallace che non segnala nessuna autentica coscienza politica (a latere, va ricordato che il fascismo e il comunismo, a modo loro, cercarono comunque di esprimerne una) ma, piuttosto, il suo azzeramento. Rivedere un tale film srotolarsi, riarrotolarsi e risrotolarsi continuamente, da parte di certuni, è deprimente. L’avviso ai naviganti – non importa quanto sia destinato a cadere nel vuoto; bisogna pure dire certe cose, nonché continuare a denunciarle quando è possibile – è che oltre a questa strategia del vuoto c’è, per l’appunto, il vuoto medesimo. Nella sua reale sostanza, dentro la quale si precipita tutti, indistintamente. Anche se viene riempito dal rimando a parole tanto preziose quanto ingannevoli, quando se ne faccia un incauto uso: «identità», «tradizione» ma anche «amicizia» e cos’altro. L’identità di chi trasforma le parole ingiuriose, che rimangono pietre, in un feticcio; la tradizione di coloro che vivono i propri gesti offensivi al pari di feticci; le amicizie interessate, quelle che usano la corda del sentimento per imprigionare le persone nelle gabbie dei risentimenti.

Claudio Vercelli

(9 febbraio 2020)