Intervista a David Grossman “Scrivere fa scoprire l’altro da sé”
Le parole permettono di confrontarci con il passato e con le cicatrici che porta con sé. Sono strumenti per analizzare da diversi punti di vista – chi porta la cicatrice, chi l’ha inferta, chi ne ha indirettamente subito le conseguenze – la medesima storia e che permettono di costruire e rimodellare la nostra identità. “Ci sono tante possibilità inespresse nelle nostre vite. Scrivere permette di esplorarne alcune, ci regala l’opportunità di essere altro e di rivivere in modo diverso il nostro passato” spiega a Pagine Ebraiche David Grossman. Il suo ultimo libro rappresenta perfettamente questa idea: tre generazioni di donne che rivivono e si confrontano con ferite del passato, che usano parole e registri diversi per raccontarsi e raccontare la storia comune. In La vita gioca con me (Mondadori) lo scrittore israeliano accompagna i lettori nelle pieghe di una tragedia famigliare e intergenerazionale, dando voce a Ghili, giovane donna israeliana cresciuta all’ombra di una madre assente (Nina) e di una nonna ingombrante (Vera). Le tre donne, ciascuna con la propria voce, si confrontano con i rispettivi traumi la cui genesi ha radici lontane da Israele, nella Jugoslavia degli anni ’50. Lì Vera, partigiana ebrea e antititina, ha perso il marito ed è stata internata in un campo di rieducazione sull’isola croata di Goli Otok. Li ha lasciando dietro di sé la figlia Nina, generando il senso di abbandono poi scaricato sulla figlia Ghili. Lì comincia la resa dei conti di una storia che Grossman non ha immaginato ma a cui ha reso omaggio: questo libro è infatti ispirato alla vera storia di Eva Panić Nahir. È stata lei a raccontare direttamente, al telefono, per anni, la sua storia allo scrittore e ad affidargli l’ultima testimonianza, diventata ora un libro e un’occasione per riflettere su alcuni grandi temi dell’umano.
Questo è un libro che parla di rese di conti molto sofferte ma in questo confronto tra i protagonisti e la storia sembra esserci qualcosa di liberatorio. È così?
Spero sia liberatorio. Molte parti le ho immaginate ma il cuore della storia è vera: quando l’ho scritto il mio obiettivo era fare in modo che questa ferita, che attraversa tre generazioni, potesse essere curata. Il modo per curare una ferita non è ignorarla ma confrontarsi con essa, raccontarla ancora in modo da darci diverse opzioni per affrontarla. Ci sono degli obiettivi che la letteratura ti permette di raggiungere molto più che la vita reale. In questo caso è un momento di grazia, in cui all’individuo è permesso di essere se stesso, di riunirsi a se stesso, non di vivere la vita in rumori, eco, sospiri. Per questo mando i quattro protagonisti (le tre donne e Rafael, il padre di Ghili e compagno di Nina) in questo viaggio a Goli Otok, nel luogo dove la tragedia è avvenuta. Quando le persone fanno un viaggio cambiano il terreno su cui camminano, si adattano a nuovi percorsi e così in parte cambiano loro stesse, si rimodellano assieme a nuove idee, nuovi sentimenti. Diventa un viaggio interiore.
Interiore ma che deve essere raccontato. Perché questa necessità?
Ciascuno dei protagonisti, ogni generazione, deve raccontare la sua storia. È come nella Haggadah di Pesach in cui il racconto tra generazioni è una mitzvah (Mitzvah Aleinu LeSaper B’Yetziyat Mitzrayim). È un precetto: racconti l’inizio di una famiglia, di una tribù, di una nazione. E se lo fai davvero, non solo riproponendo i ricordi dell’ultima volta che lo hai fatto, c’è la possibilità che improvvisamente ti si rivelino nuove nuances e forme. Quando cambi un pochino il punto di vista ti si schiudono nuovi significati: quando ad esempio racconti la tua infanzia ma lo fai tenendo a mente i tuoi genitori, capirai che anche loro hanno avuto dei genitori, che avevano i loro motivi per comportarsi in determinati modi, di fare quegli errori. Quando fai questo, improvvisamente ricrei la storia con nuove sfumature e anche il tuo posto cambia, in genere in meglio. Non sei intrappolato nel luogo in cui eri quando hai iniziato a raccontare la storia, non sei paralizzato dai sentimenti, magari dal dolore che ti è stato fatto, non vuoi vendetta ma puoi muoverti liberamente nella situazione. Quando puoi muoverti liberamente non ti senti più vittima e questa è la cosa più significativa. Non sentirsi vittima.
Cosa implica sentirsi vittima?
Non hai spazio per gli altri e non hai responsabilità di cambiare la situazione perché guardi te stesso come una figura senza potere, come un prodotto delle circostanze e non come qualcosa che tu hai creato. Ti comporti come se fossi un ragazzino insultato o umiliato, totalmente passivo e paralizzato. Ma la realtà è diversa. Tu, attraverso le parole, hai il potere di essere libero.
Hai il potere di cambiare anche identità come prendere la voce di una donna. Come si fa da scrittori uomini a mettersi nei panni delle donne?
Ci sono così tante possibilità inespresse nelle nostre vite. Se fossimo nati 500 metri al di qua o al di là di un confine, avremo avuto vite differenti, famiglie differenti, diverso livello di accesso all’istruzione o di stato sociale.
Ognuno di noi contiene l’alternativa a sé e di solito, poiché dobbiamo essere funzionali, efficienti, ci leghiamo a una sola identità, non voglio andare oltre perché sarebbe troppo confusionario. Cancelliamo ogni altra opzione perché pensiamo siano irrilevanti ma non lo sono. Se permettiamo a queste alterità di salire in superficie avranno un’influenza su di noi. E qui entra l’arte dello scrivere: mi piace scrivere dal punto delle donne. Mi dà la possibilità di esplorare identità che sono dentro di me. A un cerbiatto somiglia il mio amore, Qualcuno con cui correre con Itamar, in questo libro con le tre
donne di diverse età e lingua, sperimento. E faccio belle avventure.
Siamo in un periodo in cui si parla molto del significato della Memoria. Che cosa è per lei?
Memoria è il modo in cui creiamo la nostra identità. Siamo quello che ricordiamo ma siamo anche ciò che dimentichiamo. A volte diventiamo dipendenti dalla memoria che non ci permette di dimenticare cose che provocano il nostro essere bloccati in determinate circostanze. Siamo vittime dei nostri stessi ricordi, non siamo capaci di rielaborarli. In questo libro c’è anche la compressione che la storia ufficiale che la famiglia racconta a se stessa da tre generazioni non è più sufficiente, che il tetto non può più contenere le vecchie storie e che devono fare spazio a nuove. Credo sia un processo molto importante.
La storia cambia diversi scenari ma il punto di partenza è Israele. Che ruolo ha in questo libro?
Israele fa parte integrante di questo viaggio. Buona parte della storia è raccontata qui, in un kibbutz, a Gerusalemme.. È raccontata in ebraico da una giovane donna nata in Israele, Ghili. So che la mia bravissima traduttrice Alessandra Shomroni ha mantenuto i diversi dialetti delle tre donne e Ghili è la narratrice, quindi molto del punto di vista è israeliano. Ma se vogliamo concentrarci su cosa ci sia di “israeliano” in questo libro, credo sia la sensazione dei miei protagonisti di vivere una vita parallela a quella che avrebbero dovuto vivere perché non possono confrontarsi con i propri segreti e dolori. Ho la sensazione che anche in Israele negli ultimi decenni, in particolare dall’inizio dell’occupazione nel 1967, viviamo una vita parallela. Siamo incapaci di riconoscere che da 52 anni occupiamo un altro popolo, quindi abbiamo sviluppato ogni tipo di meccanismo, anche architettonico, per evitare di riconoscere la realtà. Lo facciamo in modo incredibilmente efficiente. Puoi vivere la vita intera in Israele senza neanche accorgertene. Credo che quando l’occupazione sarà finita allora ci sarà un momento di grazia in cui riusciremo a riunirci a noi stessi.
Daniel Reichel, Pagine Ebraiche Febbraio 2020