Periscopio – 1917
Credo che il film 1917, di Sam Mendes, rappresenti davvero uno straordinario capolavoro, per la carica emotiva della trama, l’eccezionale qualità e originalità della fotografia, della musica, della sceneggiatura, della recitazione, la tragica e poetica forza evocativa. Storia di coraggio, eroismo, solidarietà e solitudine – tratta da una vicenda vera, raccontata dal nonno del regista, che combatté nell’esercito britannico durante la Prima Guerra Mondiale – la pellicola mi è parsa non solo una dolorosa metafora della crudezza della guerra, ma della stessa condizione umana, che appare tratteggiata con un realismo cupo e disperato, e tuttavia intriso di commozione e poesia.
Vere protagoniste dell’opera, accanto ai bravissimi attori, le trincee, scavate nel terreno – identiche su entrambi i lati del fronte -, nelle quali trovavano riapro, in attesa delle incombenti battaglie, migliaia e migliaia di soldati, destinati, da un momento all’altro, a essere scagliati negli scontri armati, in cui molti di loro avrebbero trovato la morte, o atroci mutilazioni. Nell’attesa della chiamata, i militari corrono affannati nelle trincee, ubbidendo agli ordini dei loro superiori, per raggiungere i punti di combattimento. Quando si riversano fuori, tutti insieme, abbandonano l’angustia degli stretti budelli, per correre, come un’onda del mare, verso il nemico, che non hanno mai visto, che devono colpire, o dal quale devono essere uccisi. Non c’è tempo per pensare, non c’è spazio per la paura, non c’è alcuna alternativa: o la tenebrosa, claustrofobica protezione delle trincee, o l’angosciante vastità dello spazio aperto, lacerato dalle mortali esplosioni, che avrebbero decimato le giovani vite.
Non so se fosse nelle intenzioni del regista, ma ho colto, nella narrazione del film, una inquietante analogia tra le vene, che attraversano il corpo umano, e le trincee, che attraversano le terra. Le prime racchiudono il sangue, le seconde gli uomini. Quando un colpo nemico lacera le carni di un soldato, il sangue viene alla luce, portando la morte, così come la morte arriva quando i militari escono dalle trincee. Le trincee sono vene, i soldati sono sangue.
Anche se nel film non si parla di storia e di politica, lo spettatore non può non interrogarsi su quale partita di stesse effettivamente disputando, in quell’anno, per dirla con Tacito, “longus et unus”. L’anno della Rivoluzione d’ottobre, della Dichiarazione Balfour, della battaglia di Caporetto, dell’inizio di quello che Hobsbawm chiamò il “secolo breve”, che si sarebbe concluso settantadue anni dopo, con la caduta del Muro di Berlino. Tantissimi soldati ebrei, quell’anno, caddero su entrambi i fronti, a Oriente e a Occidente, anche combattendo gli uni contro gli altri: in una pagina commovente del suo romanzo storico Il rotolo di Abraham, Marek Halter immagina la scena di un combattente ebreo che uccide un suo correligionario, il quale lo aveva invece risparmiato, sentendolo pronunciare, nel momento estremo, lo Shema’ Israel. Se l’Organizzazione Sionista mondiale appoggiava il regno britannico, le autorità dell’Yishùv, il primo nucleo ebraico di ‘Erez Israel (che contava, all’epoca, circa 100.000 anime), assicuravano lealtà all’impero ottomano, in ossequio al dovere civile di fedeltà al Paese ospitante (“dinà demalchutà dinà”: “la legge dello Stato è legge”); ma i fratelli Aharonson, sfidando tanto le autorità turche quanto quelle ebraiche, scelsero di tradire, effettuando spionaggio a favore degli inglesi, che fu di immenso aiuto per la loro vittoria.
Ma, nel mese di aprile, quando è ambientato il film di Mendes, le sorti dell’immane conflitto, di quella che era stata definita “la guerra che avrebbe posto fine a tutte le guerre”, erano ancora incerte. L’esito era in bilico, e ogni singolo assalto di uomini emersi da una trincea, così come ogni singolo fiotto di sangue sgorgato da una vena, avrebbe potuto decidere le sorti del confronto.
Che sarebbe accaduto, se avessero prevalso gli imperi centrali? Guido Morselli prova a immaginarlo, in Contropassato prossimo, un romanzo che è un testo di riferimento della cd. “controstoria”, o “storia controfattuale”, la storia delle ipotesi non realizzate. Sarebbe stato ugualmente fecondato, nel grembo della nazione germanica, quello che, nel titolo di un altro grande film, di Ingmar Bergman, viene chiamato L’uovo del serpente? Fu forse, quest’uovo maledetto, inseminato proprio dal sangue di quelle vene, di quelle trincee?
Nel film tale domanda non viene posta direttamente, e lo spettatore è posto soltanto di fronte alla tragica potenza di quella forza cieca che impone, periodicamente, che gli argini delle vene e delle trincee si rompano, e il dio Moloch riceva il suo tributo.
Francesco Lucrezi, storico