L’uso strumentale della storia

jesurumChe orrore la speculazione in malafede sulla memoria, sul ricordo; e che vergogna l’uso strumentale della storia. Lo spettacolo a cui anche quest’anno ci è toccato assistere intorno alla data del 10 febbraio – foibe e questione orientale – la dice lunga riguardo a ciò che tutti, noi tutti, vogliamo sapere o non sapere a seconda di quanto ci è più “comodo”, e non soltanto politicamente. In fondo, ammettiamolo, le tragedie del passato continuano a riguardare chi le ha vissute, o chi di quelle tragiche sofferenze è discendente. Insomma chi le ha nella carne, nel cuore, nell’anima.
Mi è così venuto da andare a rileggere alcune toccanti pagine de Il vento degli altri di Silvia Cuttin (Pendragon). Fiume, oggi Rijeka: dalle criminali puttanate dannunziane agli obbrobri titini, passando per il fascismo assassino, la paura, l’eroismo, le delazioni, l’amore e la passione che non guardano alle etnie e alle classi sociali ma la maggior parte delle volte vengono sconfitti dalla storia. Una storia che ci interroga anche dalle pagine di Prima che la Jugoslavia finisse, romanzo storico, o storia fatta romanzo, di Giovanna Tesser (infinito edizioni). Pola, Istria, l’invasione italiana, la lotta partigiana, gli odi etnici, le foibe, le terre abbandonate, le delusioni, le fedi politiche spietate. Vittime che non dovrebbero diventare mai numeri o generici atti di memoria, perché perdendo pathos il ricordo rinuncia al proprio compito, umano prima ancora che civico e politico.
Con il disastroso rischio – come magistralmente ci ricorda Chimamanda Ngozi Adichie in Il pericolo di un’unica storia, Einaudi – di creare stereotipi, “e il problema degli stereotipi non è tanto che sono falsi, ma che sono incompleti. Trasformano una storia in un’unica storia”.

Stefano Jesurum, giornalista