Parlateci delle fobie
Il valore della memoria non è quello di unire gli opposti ma di stabilire ambiti di reciprocità, condizioni di ascolto e, possibilmente, di comprensione. Molto di più non si può né si deve fare, trattandosi peraltro di un obiettivo di per sé già molto ambizioso, inscritto dentro l’idea di cittadinanza democratica. Una prevedibilissima perversione dei risultati è invece quando le memorie vengono messe in competizione tra di loro, non perché se ne compari similitudini e si identifichino differenze (la storia è sempre il racconto dell’unicità dei fatti) ma perché si spasimi per una sorta di omologazione. Qualcosa del tipo: poiché tutti, a modo loro, sono colpevoli di qualcosa (e carnefici di qualcun altro), allora le responsabilità specifiche si stemperano nella famosa notte, dove le vacche sono nere e quindi indistinguibili. Ovvero, ed è un atteggiamento complementare al precedente, quando ci si intesti lo status di vittime e di depositari di un dolore dispiegato il quale tutta la narrazione storica subirebbe una piegatura stravolgente, rivelando crimini altrimenti inconfessabili. La retorica del sensazionalismo, della perversione dell’evento attraverso la sua enfatizzazione e la sua estremizzazione, quindi della sua assolutizzazione, risponde ad alcuni cliché della comunicazione che servono a raccogliere l’attenzione di una parte del pubblico, di fatto occultando i dati di fatto. Chi adotta una tale strategia ha quasi sempre della polvere da nascondere sotto il tappeto, ossia una colpa della propria parte da scontare attraverso il suo annullamento nell’indistinzione. Il «parlateci delle foibe!», se serve a tacitare gli interlocutori, aderisce esattamente a questo meccanismo: non è una richiesta di inclusione dentro il discorso democratico ma una sua contraffazione, laddove ne rifiuta il pluralismo delle memorie per esercitarsi in una sorta di rivalsa eterna. Soprattutto quando ad esso, in un gioco deliberatamente menzognero, si accompagna l’indisponibilità a raccogliere il lavoro degli storici di professione. I quali, per inciso e per inteso, non sono le vestali della verità ma coloro che, lavorando non solo sui fatti ma sui codici per interpretarli, forse qualcosa da dire ancora ce l’hanno ancora. La pacificazione, che dovrebbe seguire ad una sorta di parificazione tra ricordi ed esperienze storiche, è quando di meno verosimile si dia nella vita quotidiana. In genere viene invocata in base ad un codice di senso comune per cui le vittime sarebbero comunque uguali da un punto di vista rigorosamente morale. Lo sono senz’altro, al pari – tuttavia – del fatto che non sono per nulla identiche le ragioni per cui si muore per mano altrui. I morti in combattimento non sono meno morti di quelli trucidati o gassati. Ma i primi sono il (prevedibile) risultato dello stato di guerra, i secondi sono il prodotto del dispiegarsi di un razzismo di Stato che ha ammorbato le coscienze europee, disintegrando le democrazie e spezzando il tessuto della coesistenza civile. Ognuno legittimamente piange i “propri” morti – espressione, quest’ultima, peraltro quanto mai ambigua – ma l’usarli come clava da dare in testa, tanto più a distanza di tempo, a quanti sono identificati come eterna controparte, non è di certo indice di un discorso pubblico proiettato alla comprensione reciproca. Non di meno, a fronte di cifre e ricostruzioni pubblicistiche a volte più prossime alla fantasia che non ad un qualche riscontro di merito, l’impressione che se ne ricava è che chi strepita ossessivamente e maniacalmente, denunciando a destra e manca omissioni e compromissioni, sia per nulla interessato a fare condividere una storia e molte memorie, bensì a tacitare qualsiasi riflessione critica. Più che foibe, fobie e allergie al processo democratico. Che si ripetono con certosina costanza, come quella certa disposizione d’animo, che si camuffa come rivelazione e rivendicazione quando invece è azzeramento della coscienza del passato e ipoteca sul presente.
Claudio Vercelli