Dalla Bibbia al web, il segno dei confini

Nonostante la retorica sulla globalizzazione e lo sviluppo della comunità internazionale, nuove recinzioni e muri di confine continuano a essere eretti in tutto il mondo, attorno a stati, territori occupati e comunità chiuse, tra spazi pubblici e privati, tra area legale e illegale. Alcuni di questi confini sono permeabili e altri fatali, alcuni sono visibili e altri rafforzati da codici culturali, test linguistici o metodi biometrici. I confini decidono della vita e della morte, identità e “alterità”, appartenenza ed esclusione.
La grande mostra “Sag Shibbolet” (“Dì Shibbolet”) nata dalla cooperazione fra il Museo ebraico di Hohenems (Austria) e quello di Monaco di Baviera (Germania) parte da una riflessione sul celebre passaggio biblico dal Libro dei Giudici. (“Gli uomini di Galaad intercettarono quelli di Efraim sui guadi del Giordano; quando uno dei fuggiaschi di Efraim diceva: ‘Lasciatemi passare’, gli uomini di Galaad gli chiedevano: ‘Sei un Efraimita?’. Se quello negava, gli intimavano: ‘Ebbene, di’ Schibbolet’, e quegli diceva Sibbolet, non sapendo pronunciare correttamente. Allora lo afferravano e lo uccidevano presso i guadi del Giordano. In quella occasione perirono quarantaduemila uomini di Efraim”).
Artisti dalle provenienze più diverse sono stati invitati a riflettere muovendo da questo punto di partenza e analizzando la nostra vita presente su cosa sono i confini e come segnano la storia del mondo. L’esposizione presenta opere di Ovidiu Anton (Vienna), Caroline Bergvall (Londra), Zach Blas (Londra), Sophie Calle (Parigi), Arno Gisinger (Parigi), Vincent Grunwald (Berlino), Lawrence Abu Hamdan (Beirut), Ryan S. Jeffery (Los Angeles), Quinn Slobodian (Cambridge, Ma), Leon Kahane (Berlino/Tel Aviv), Mikael Levin (New York), Fiamma Montezemolo (San Francisco), Pınar Öğrencirenci (Istanbul/Berlino), Fazal Sheik (Zurigo). Ma attorno alle opere d’arte si snodano molti altri temi di riflessione. Eccone alcuni che accompagnano il visitatore.

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LE PIETRE PARLANTI
Dal 1933 al 1945 furono decisi i destini di centinaia di migliaia di rifugiati ai confini della Germania nazista e dei suoi territori. Anche a Monaco, a partire dal 1933, migliaia di abitanti ebrei furono costretti a fuggire dalla persecuzione antiebraica.
I valichi di frontiera e le stazioni e alcuni tratti di frontiera esposti divennero i punti focali di questo esodo di massa dal Reich tedesco. Inizialmente erano stati gli stessi nazionalsocialisti a guidare gli ebrei attraverso il confine, non senza privarli dei loro beni e provocando così una crisi dei rifugiati nei paesi vicini. Questi, a loro volta, reagirono con la chiusura dei confini, divieti di viaggio e, nel caso della Svizzera, persino la richiesta di contrassegnare i passaporti tedeschi degli ebrei con una “J” rossa.
In seguito, furono soprattutto gli aiutanti clandestini e i contrabbandieri da entrambe le parti del confine a correre immensi rischi personali che consentirono ai rifugiati ebrei di attraversare i confini.
Modellato su pietre di confine che segnano le frontiere del Reich tedesco negli anni ’30 e ’40 e presenti fino ad oggi, le stazioni sonore della mostra simboleggiano simbolicamente questo movimento di rifugiati e di fuga. La mostra permette ad alcune di queste pietre di “parlare”, narrando storie di rifugiati da Monaco tra il 1933 e il 1945.

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SPAZI PUBBLICI E SPAZI PRIVATI
Non è necessario avventurarsi molto lontano per attraversare un confine: la soglia della nostra casa, la porta della nostra stanza o anche la password che consente l’accesso al nostro profilo online, sono tutti confini che separano il privato dal pubblico. Attraversiamo questi confini ogni giorno e spesso prestiamo poca attenzione alla loro presenza e alla loro funzione.
A volte questi confini possono essere vaghi, e spesso si spostano e si modellano per accogliere persone diverse: potremmo dare ai buoni vicini un paio di chiavi di riserva in segno di fiducia o trovare pace e privacy in un tranquillo parco pubblico. Tali confini possono costruire, o distruggere, una comunità.
Lo spazio pubblico è come l’acqua o l’aria per la vita politica, e la sua rivendicazione è uno dei più elementari gesti di protesta: non è un caso che i più grandi movimenti sociali degli ultimi anni abbiano avuto luogo nelle piazze della città, spesso come reazione contro la minaccia dell’intervento del governo in tali spazi.
Il diritto alla privacy, d’altro canto – esentarsi dal controllo pubblico, avere uno spazio tutto proprio, un confine del proprio – è stato recentemente sfidato da nuove problematiche sotto forma di onnipresente sorveglianza digitale e crescente diseguaglianza economica.

LINGUAGGI E CONFINI
“Shibboleth”, in origine ebraico per spiga, corrente o fiume, è venuto a significare un codice culturale, una parola o un’usanza, distinguendo tra gruppi: noi e loro, nemico e amico. Come mostra la storia biblica, i bordi sono sfumati, a volte nascosti, spesso asimmetrici e mai naturali.
La lingua, il mezzo più elementare di comunicazione, diventa facilmente un confine, una corrente o una valuta che distingue tra comunità altrimenti indistinguibili. Ma “Shibboleth” può anche essere letto come segno della molteplicità all’interno e nella migrazione delle lingue. È quindi un concetto ambivalente, entrambi i significati manifestamente poetici, che porta in sé contenuti che sfuggono alle traduzioni. Sono inoltre tragicamente discriminatori: uno strumento di alleanza, ma anche un mezzo di repressione e sottomissione. Lessico, intonazione e accento servono da marcatori che vengono utilizzati, anche se spesso inconsciamente, per identificare e rintracciare origini geografiche o etniche e differenziare le classi. I dialetti possono contribuire a un senso di appartenenza e comunità. Tuttavia, in particolare in tempi di conflitto, il linguaggio è stato spesso usato per differenziare e segregare, diventando un
confine invisibile portato nelle nostre bocche.

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CAPITALE E LAVORO
Gli ultimi decenni hanno visto una miriade di evoluzioni: l’ascesa di reti di comunicazione globali, organizzazioni transnazionali e sovranazionali, società internazionali, viaggi aerei a basso costo, accordi commerciali multilaterali, zone economiche e paradisi fiscali e, soprattutto, un’enfasi sul libero movimento del capitale e dei flussi di merci che sono stati spesso raggruppati insieme sotto il concetto di “globalizzazione”. L’apparente imparzialità del World Wide Web è arrivata a simboleggiare la promessa di un mondo totalmente invischiato, che presumibilmente
ha soppiantato le questioni del territorio e della nazione e ha provocato la cancellazione dello spazio nel tempo, come Marx precedentemente aveva immaginato.
Eppure le molte contraddizioni prodotte da questi processi sono sempre più evidenti. Livelli di disuguaglianza economica senza precedenti significano che il luogo di nascita è importante come mai prima d’ora, e mentre il flusso di capitali è garantito, la mobilità delle persone è monitorata e spesso violentemente limitata. Paradossalmente questo mondo globalizzato e piatto ha provocato una proliferazione di mura e un intricato sistema di segregazione economica.

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CONFINI NATURALI E CONFINI INNATURALI
A volte i confini statali possono sembrare quasi naturali, spesso coincidendo con indicatori geografici e riflettendo l’identità culturale. Tuttavia, gli stati come li conosciamo oggi esclusivamente territoriali, separati da confini discreti e che rivendicano un’autorità assoluta entro confini coesivi e lineari sono un fenomeno relativamente nuovo. Fu solo all’inizio del XIX secolo che l’idea di uno stato territoriale fu consolidata in Europa, che fino ad allora era caratterizzata da giurisdizioni sovrapposte e autorità composite. In altre parti del mondo i confini territoriali sono stati imposti dalle potenze coloniali, che hanno formato nuovi stati e protettorati con scarsa attenzione alle considerazioni etniche, linguistiche, tribali o religiose locali. Le rivendicazioni territoriali e il dominio coloniale in competizione spesso hanno portato a conflitti nazionali.

CONFINI BIOMETRICI
I confini sono stati a lungo esternalizzazioni di identità percepita, limiti interni e paure proiettate su spazi esterni, costruiti nel paesaggio o utilizzando segni naturali. Ma negli ultimi anni molti confini sono diventati sempre più subdoli, mobili e differenzianti, il muro solido spesso sebbene certamente non sempre è stato sostituito da un intricato apparato logistico, una serie di sensori, polizia mobile, protocolli e data center volti a regolare accedere e consentire una mobilità senza soluzione di continuità per alcuni, limitando gravemente altri. Questi processi sono sintomatici di ciò che la sociologa Louise Amoore chiama “confini biometrici”, confini che sono usati per distinguere i corpi ai confini internazionali, aeroporti, stazioni ferroviarie, metropolitane o strade cittadine. Secondo questa logica, non esiste un confine, solo una moltitudine di corpi classificati in una scala di livelli di rischio, corpi che diventano confini.

Pagine Ebraiche Febbraio 2020