Milano – Le prospettive del piano Trump

IMG_20200218_210135409Un piano che parte dalla situazione sul terreno e che costituisce una rottura rispetto alle iniziative di pace precedenti. Così il giornalista Renato Coen, responsabile Esteri di Sky, e Stefano Magni, docente dell’Università degli Studi di Milano, hanno descritto il progetto “Peace to prosperity” proposto dall’amministrazione Trump per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Nel corso di una serata organizzata al Noam di Milano su iniziativa di Raffaele Turiel, Coen e Magni si sono soffermati ad analizzare i diversi punti delle 181 pagine del Piano Trump e il quadro geopolitico in cui si inserisce. Moderati da Davide Romano, i due relatori hanno sottolineato come di fatto dal 2007 – dalla proposta Olmert con la mediazione del presidente Bush – non ci sia stato un vero nuovo piano di pace e come la situazione mediorientale d’allora sia profondamente cambiata. Oggi, ha rimarcato Magni, le primavere arabe prima, l’Isis e l’espansionismo iraniano hanno cambiato gli equilibri con la nascita di uno schieramento che vede i paesi sunniti alleati con gli Stati Uniti e – più o meno palesemente – con Israele. Questa distensione dei rapporti tra Gerusalemme e paesi come l’Arabia Saudita potrebbe, nella lettura di Magni, permettere una nuova pressione sui palestinesi affinché si siedano al tavola per discutere un piano – quello di Trump – già rifiutato. “Senza l’appoggio dei paesi arabi nessuno progetto può avere un futuro”, concorda Coen, che ha ricordato alcuni degli elementi del progetto dell’amministrazione Usa: la creazione di uno Stato palestinese tra Cisgiordania e Gaza, con l’unione dei due territori attraverso tunnel e ponti; la concessione a Israele di annettere gli insediamenti israeliani in Cisgiordania; la previsione per i palestinesi, a fronte della totale demilitarizzazione e di un impegno alla lotta alla corruzione , di 50 miliardi di dollari per lo sviluppo economico. A questi elementi – spiegava Magni – si aggiunge la creazione di una capitale palestinese in sobborghi di Gerusalemme, lasciando fuori la Città Vecchia; il no all’idea di concedere ai rifugiati palestinesi sparsi per il mondo il diritto al ritorno e la cancellazione dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa proprio (e solamente) dei rifugiati palestinesi.
Sia per Coen che per Magni il piano Trump ha il merito di riportare il tema in superficie, proponendo un percorso non battuto in passato. “Le alternative sono o il mantenimento dello status quo – affermava Coen – ma credo danneggi soprattutto gli israeliani. O la creazione di uno stato binazionale e democratico, ma così Israele perde il suo carattere ebraico dovendo assimilare 4,5 milioni di palestinesi; o Israele estende la sua sovranità e nazionalizza tutti gli insediamenti che fino al giorno prima erano illegali, non concede parità di diritti ai palestinesi ma così si ha uno stato non democratico. Oppure si crea uno stato democratico palestinese a fianco di quello israeliano”. Per Coen però serve una nuova leadership israeliana: Israele è nella condizione più difficile perché tra i contendenti è considerata la parte forte ed è quindi quella a cui si fanno meno sconti, mentre i palestinesi hanno più libertà, riflessione del giornalista di Sky, “ma non vedo attualmente leader illuminati in Israele che sappiano gestire la situazione”.