Gli effetti perversi
Questa è la presa di posizione: “La protesta organizzata da Rifondazione Comunista davanti a Palazzo Lascaris [sede del Consiglio regionale del Piemonte, n.d.r.] è al limite del grottesco: se sono solo quattro residuati bellici sovietici a scendere in piazza contro le nostre iniziative, quali la distribuzione del fumetto ‘Foiba rossa’ nelle scuole piemontesi e la revoca delle borse di studio agli antagonisti responsabili delle violenze in Università, allora ringraziamo i compagni di rifondazione per spronarci a tirare dritto. Intanto però li denunciamo tutti penalmente per negazionismo, insieme a quanti in questi giorni sui social, nei Consigli comunali e dagli organi di informazione, hanno negato la vera natura di genocidio dello sterminio attuato nelle foibe contrastando il Giorno del ricordo: il reato, secondo la legge 116/2016, riguarda oltre alla Shoah anche i crimini di genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra. A sinistra faranno bene a capire che non hanno alcuna licenza d’odio” ironizza Maurizio Marrone, capogruppo di Fratelli d’Italia in Regione Piemonte, che aggiunge: “Sappiano questi sparuti e ingrigiti nostalgici che il progetto per ricordare Norma Cossetto nelle scuole procede, tanto che abbiamo concordato con l’assessore Elena Chiorino di affidare alle associazioni di esuli giuliani e dalmati la distribuzione di Foiba rossa nelle scuole, esattamente come in Regione Veneto, così da poter far raccontare il dramma degli infoibati dai diretti testimoni di quel drammatico genocidio anti italiano che oggi qualcuno vorrebbe ancora negare” (qui il link). Chi scrive le righe a seguire, partendo dalla lunga citazione appena riportata in esergo, da tempo studia la “complessa vicenda del confine orientale”, come recita testualmente il dispositivo della legge numero 92 del 30 marzo 2004, quella per l’appunto che ha istituito la ricorrenza del Giorno del Ricordo. Il rimando alla complessità non è un esercizio di comodo: la “tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra” (sempre come recita la lettera della legge) si inserisce in un quadro stratificato, fatto di azioni e reazioni, di sopraffazioni e di violenze. Già si è detto: ogni violenza fa testo a sé. Rinviare alla complessità del passato non serve per coprire le singole responsabilità. Semmai è indispensabile per contestualizzare. Così come per stabilire dimensioni di scala. Non morale bensì storica. Per l’appunto, il passato si studia tutto, non solo per la parte che fa comodo. Ora c’è chi ci informa, per così dire, che la “tragedia” consisterebbe in un “genocidio anti-italiano”. In giro c’è chi parla anche di “Shoah degli italiani”, evidentemente non solo mettendo sullo stesso piano campi di sterminio e violenze nel Nord-Est ma adoperandosi in quella parificazione che è il presupposto per dire che se tutti hanno una colpa da scontare, allora il fascismo in fondo non è poi così tanto “colpevole”. Le “complesse vicende del confine orientale” quindi, invece che inserirsi nelle dinamiche di una clamorosa sconfitta bellica (in un conflitto causato dall’Italia medesima), nello spostamento forzato di intere popolazioni, nella brutale ristrutturazione politica del Nord-Est, nella deitalianizzazione di una parte di esso, nel rafforzamento del potere titino, nel patto dell’oblio che ha dominato l’Italia per decenni con la compartecipazione interessata di molti, diventano “genocidio” tout court. Chi non è di questo avviso, al netto delle stesse proteste per la diffusione di un fumetto nelle scuole, sarebbe quindi un “negazionista”. C’è ben poco da commentare, se non l’ignavia di quanti, potendo, non hanno invece replicato nel merito di tali dichiarazioni. Poche parole riepilogative, invece, per i lettori di queste righe: era evidente da subito che i pruriti giustizialisti recentemente nutriti da certuni, anche a sinistra, rispetto alla repressione dei fenomeni d’odio e a quelle fattispecie di reato ascrivibili a tali condizioni (“tutti davanti al giudice, possibilmente in galera!”), abbiano già in sé le radici della loro perversione, giuridica, civile e, soprattutto, politica. In altri termini: che siano facilmente manipolabili. Le pacate ed argomentate obiezioni, sono perlopiù cadute nel vuoto. Se non altro perché l’ansia di identificare e ricondurre alla sola penalità le condotte ritenute devianti, è servita a coprire il restante vuoto di iniziativa politica. Non sussiste nessuna garanzia che rispetto ad una materia tanto ampia quanto incerta (il confine tra opinione e diffamazione; ancora di più, tra giudizi storici differenziati) non si possano inserire quanti sono invece disposti a farne un uso spregiudicato, piegandolo alle proprie ragioni di parte, che nulla hanno a che fare con la condivisione civile (ed etica) del passato, essendo semmai animate da una logica di mera rivalsa. A chiare lettere, va detto che un tale esito, l’eterogenesi degli usi di istanze repressive – con il corredo della minaccia di perseguire chiunque non si adegui a quella che non è l’autenticità storica (di per sé sempre fatta di molte sfumature) bensì una presunta verità istituzionale – era facile da immaginare fin da subito. Derivando dallo stato confusionale, a tutt’oggi ben evidente, di chi è compiacente con le condotte di accomodamento nelle letture del passato; ossia ritenendo evidentemente di poterne beneficiare per la sua promozione politica. In fondo, Mussolini ha fatto anche cose buone, no!? Peccato che proprio i profughi giuliani, istriano-dalmati, fossero poi stati chiamati a pagarne una parte dei conti. La questione, gentili lettori, non è il “ritorno del fascismo”, che mai se ne è andato del tutto, ma la sopravveniente inessenzialità di quell’antifascismo che, celebrando se stesso come una sorta di monolito cristallizzato, oramai è solo un afono esercizio sulla storia, ridotta ad un minestrone nel quale galleggiano pezzetti, del tutto scomposti, del passato medesimo. In mezzo alla scomparsa totale delle culture politiche. Sarà un minestrone molto indigesto da digerire, sia ben chiaro. In paesi che aspirano ad essere democrature, come la Polonia e l’Ungheria, la parificazione del passato è già terreno di senso comune. Tutti criminali, all’infuori della forze di governo. Poiché l’obiettivo non è rivolto all’indietro, a quanto è stato, ma a quello che potrebbe essere. Parificare vuol dire riabilitare l’altrimenti inaccettabile, usando quegli stessi strumenti che avrebbero invece dovuto fungere da condanna inappellabile.
Claudio Vercelli
(23 febbraio 2020)