Periscopio – Il ciarlatano

lucreziA distanza di quasi 30 anni dalla sua scomparsa (avvenuta nel 1991), la voce di Isaac Bashevis Singer, il grande scrittore in lingua yiddish, premio Nobel per la letteratura nel 1978, continua a farsi sentire, mandando al mondo messaggi di straordinaria forza e attualità. E, al di là del valore artistico dei suoi testi, è senz’altro fuori dal comune la prolificità dello scrittore, che per tutta la vita ha scritto e pubblicato, con una continuità e costanza davvero singolari, un’imponente quantità di romanzi e racconti, alcuni dei quali non ancora tradotti in inglese e in altre lingue.
Non si può non essere grati, perciò, alla Adelphi, alla curatrice, Elisabetta Zevi, e alla traduttrice, l’insuperabile Elena Loewenthal, per avere permesso al pubblico italiano, prima di qualsiasi altro, di potere leggere un nuovo, importante romanzo dell’autore, intitolato Der Sharlatan (Il ciarlatano), finora mai pubblicato, e apparso soltanto, a puntate, tra il 23 dicembre 1967 e il 31 maggio 1968, in yiddish, sulla rivista americana Vorverts.
Lo scritto (crudo, aspro, doloroso, intriso di una cupa disperazione) è ambientato negli ambienti ebraici di New York, nei primi mesi della Seconda Guerra mondiale, quando le armate di Hitler dilagavano nell’Europa orientale, e gli Stati Uniti non erano ancora entrati nel conflitto, né si prevedeva che lo avrebbero fatto. Ben consapevoli della sorte segnata dei loro correligionari, intrappolati nella terribile morsa nazista, i protagonisti del romanzo appaiono lacerati da sentimenti e pulsioni contrastanti: da una parte, l’angoscia per il destino dei loro confratelli (tra i quali anche parenti, figli, coniugi, amici…), il desiderio impossibile di portare loro, in qualche modo, soccorso, l’incredulità per la spirale di follia e orrore in cui il mondo pare precipitare, e anche per l’apparente indifferenza degli americani tra cui vivono, per i quali la tragedia pare consumarsi in un altro pianeta, o non consumarsi affatto; dall’altro, la voglia di continuare, in qualche modo, a vivere, la tendenza a non pensare, a chiudersi nel proprio mondo di illusoria salvezza, ad abbandonare gli ebrei d’Europa alla loro fine. Perché – come già in molti altri romanzi di Singer – i protagonisti della storia sono tutt’altro che delle persone virtuose, solidali, compassionevoli: a partire dallo spregevole protagonista, il “ciarlatano” – un uomo capace soltanto di mentire, ingannare, sedurre, tradire, consapevole della propria infima statura morale, e tuttavia incapace di provare a riscattarsi, a cambiare vita -, vediamo muoversi sulla scena un mondo di personaggi piccoli, meschini, gretti, capaci di odiare molto più che di amare, per i quali la consapevolezza della tragedia in atto – lontana e vicinissima -, pare sollecitare, anziché compassione, solidarietà, empatia, i peggiori istinti di egoismo, cinismo, rancore.
Nell’impossibilità pratica di fare qualcosa contro l’immane tragedia – e spesso anche nella mancanza di volontà di farlo -, questi uomini e queste donne appaiono come patetiche marionette mosse da un regista beffardo e crudele, che vedono in Hitler una sorta di Dio malvagio, al cui volere è inutile opporsi. Un ghigno satanico pare attraversare le pagine del romanzo, che sembra segnato dalla frase di Elias Canetti, secondo cui la vita di ogni uomo, vista da vicino, pare ridicola, ma, da ancora più vicino, tragica.
Il cupo pessimismo del libro rende difficile interrogarsi riguardo all’esistenza e al possibile contenuto di un “messaggio”. La felice scelta della curatrice e dell’editore di riprodurre la foto di una pagina autografa dell’autore induce a chiedersi quale abbia potuto essere, durante la sua lunga vita di narratore, il suo stato d’animo. Quelle lettere chiare, ordinate, eleganti, ogni tanto segnate da una precisa correzione, fanno pensare, all’inizio della lettura, a un atteggiamento razionale, lucido, controllato, al puntuale impegno di un diligente e metodico operaio della parola; ma, alla fine della lettura, la sensazione è diversa, e quei caratteri vergati in yiddish – la lingua delle vittime e dell’ecatombe – sembrano rappresentare piuttosto un silenzioso, straziato grido d’aiuto, rivolto non si sa a chi, da parte di un uomo che, come i suoi personaggi, assisté da lontano, sgomento e impotente, all’incenerimento del suo popolo.
Non cercheremo di spiegare il messaggio, perché ci pare impossibile farlo, limitandoci a inchinarci, di nuovo, di fronte a questa tenebrosa testimonianza.

Francesco Lucrezi

(26 febbraio 2020)