Ticketless – Salami d’oca
Il lettore accorto lo avrà notato: questa rubrica nelle ultime settimane ha virato radicalmente verso lo scherzo, la battuta spiritosa, l’allegro (ma non troppo). Non sono tempi sereni quelli che stiamo vivendo. Prima le aggressioni, le scritte sui muri, adesso il virus. Su tutto, peggio di tutto, la cecità della nostra classe politica, la rissosità, la sua pochezza progettuale. Mi appello così alla salvazione del ridere, sperando che nessuno si offenda o mi accusi di leggerezza.
Così, questa settimana vorrei pronunciare l’elogio del salame d’oca, la cui scomparsa dalle nostre tavole temo sia in parte imputabile anche alla smemoratezza degli ebrei italiani. Reputo un’ingiustizia che per l’export di cibo kosher si debba rincorrere soltanto il Barolo delle Langhe. Nell’era della buona cucina sacralizzata in tv i salami d’oca che ho avuto la fortuna di mangiare nella mia infanzia vercellese penso abbiano ottime carte da giocare, ma la loro assenza non interessa nessuno, nemmeno ai gourmets di Eataly. Aggiungo inoltre, a vantaggio di chi lo avesse dimenticato, che i salami d’oca kosher si diffusero insieme alle idee rivoluzionarie di Mazzini e della Giovine Italia. A Vercelli, dove si custodiva la ricetta per quei prelibati salumi, Giuseppe Vitalevi, figlio del più noto libraio cittadino, citato pure da Gioberti, si lega ai congiurati, spostandosi continuamente, nella clandestinità, fra Marsiglia e Lugano. All’indomani dei moti del ’31 un vero e proprio rastrellamento contro gli affiliati della Giovine Italia costringe il Vitalevi, miracolosamente preavvisato da amici fidati, a riparare prima ad Ivrea poi in Svizzera. L’incandescente materiale di propaganda che ha con sé lo lascia nella cantina di un amico e compagno di lotta, Abram Lazzaro Levi, che per l’appunto si guadagnava da vivere smerciando la prelibatezza del ghetto. Corse voce che gli appelli con tanta fatica stilati dal Padre della Patria ebbero fine ingloriosa. Carta per avvolgere i salami d’oca.
Vitalevi doveva essere un personaggio alquanto bizzarro. Mazzini non lo stimava affatto, il suo pupillo ebreo era un altro, il modenese Angelo Usiglio. Nel 1833, venuto a sapere di un duello a Parigi fra il Vitalevi e Celeste Menotti, fratello di Ciro, Mazzini, privo di notizie sull’esito del duello, scrive in una lettera le parole seguenti con la perfidia di cui solo lui era capace: “Sono inquieto, perché se v’è un galantuomo, ha da soccombere. Vitalevi ha studiato scherma tutti questi sei mesi: parlano di botte – e che so io. Dio voglia non accadano mali: morire non è triste cosa; morire per mano di Vitalevi è cosa tristissima”.
Alberto Cavaglion
(26 febbraio 2020)