Coloniavirus
Delle infinite considerazioni che si potrebbero fare rispetto alla condizione, del tutto inattesa, che si è generata in queste ultime due settimane, con l’esplosione mediatica del “fenomeno Coronavirus” (più che della stessa epidemia in sé, ovvero della sua manifestazione sul piano della salute pubblica), alcuni passaggi, a filo di penna, già da adesso si possono evidenziare. Il primo di essi è l’estrema fragilità dei nostri sistemi di comunicazione e di informazione. In un’economia globale che si basa proprio sulla raccolta, la lavorazione e la diffusione di una miriade di “molecole” informative, il rischio della «infodemia» (in questo caso da intendersi essenzialmente come un susseguirsi di flussi informativi incontrollati, tali da creare e sedimentare panico o comunque ansia) costituisce purtroppo un dato di fatto. Non è solo il già risaputo effetto della manipolazione prodotta dalla diffusione dei «fake», i falsi sistematici, anch’essa peraltro un’epidemia a sé stante, e neanche della cosiddetta «demenza digitale» che imperversa – del tutto incontrollata – sui social network. Si tratta semmai di qualcosa di più sottile e, al medesimo tempo, pervicace, legato a quel complesso problema che è l’eccesso di sollecitazioni informative. Il troppo stroppia, si diceva un tempo: l’inflazione non solo non aiuta ma confonde e svaluta il valore del bene informazione. La miriade di sollecitazioni è quindi una pandemia a sé. In quanto, se non è accompagnata da filtri di interpretazione e da autorità capaci di offrire plausibili elementi di gestione degli effetti dei flussi comunicativi (comprensione, analisi, interpretazione, creazione di scale di giudizio), concorre a creare quel fenomeno entropico per il quale si ingenera disordine crescente. Non è per nulla vero che più si sa, meglio si possa scegliere: la competenza non è un problema di quantità ma di capacità di ordinarle secondo nessi logici. Senza questi ultimi, si è alla mercé delle circostanze, come quelle canne che si piegano secondo la direzione assunta dal vento. Il panico sta in questa dinamica. Un secondo aspetto è la perniciosità del transito da un tipo di informazione verticale, basata sulla verifica da parte di agenzie autorevoli di ciò che viene socializzato tra il grande pubblico, ad una comunicazione orizzontale, che si alimenta come un processo spontaneo, autogenerato, destinato a ripetersi all’infinito, senza controlli che non siano quelli di una mitologica “opinione pubblica” che, alla resa dei conti, non è né “opinione” né “pubblica”. Non si tratta, a stretto rigore di logica, di una patologia della nostra contemporaneità, bensì di un effetto della trasformazione di molte delle nostre attività produttive in processi immateriali, dove la virtualità sopravanza la materialità degli scambi. Ciò che fino a non molto tempo fa era presentato, con grande ingenuità (a volte, invece, con calcolato interesse di parte), come un’estensione del campo della libertà di giudizio e dell’autonomia di valutazione – quasi che si trattasse di un fenomeno di redistribuzione del potere – è invece segno concreto di una decadenza della mediazione da parte di soggetti istituzionali che dovrebbero aiutare la collettività nei suoi processi decisionali e, soprattutto, nelle sue condotte quotidiane. Non si è più liberi, semmai si è maggiormente soli. Circondati, in maniera asfissiante, da immagini, parole, “notizie” e quant’altro. Angosciati da un tale assedio. Anche per questo, allora, si va cercando qualcosa e qualcuno ai quali affidarci, per liberarci dalla morsa dell’incertezza e dell’impotenza. Che sia soprattutto una figura pubblica (un leader di partito così come uno “scienziato”), tale poiché visibile, a riscontro – non necessariamente ancorato ai fatti – che le comparsate mediatiche siano già di per sé garanzia di credibilità, prima ancora che di autorevolezza comprovata. Ciò che chiamiamo con il termine «populismo» registra, sul piano politico come su quello dei sentimenti collettivi, un tale stato di cose. Un terzo aspetto è l’odiosità di certe comunicazioni che si ripetono implacabilmente, simulando di volere acquietare quando invece inquietano ancora di più. Non sono il prodotto del fraintendimento dei comunicatori e, ancora meno, degli ascoltatori, bensì un effetto di sostituzione delle paure – e soprattutto dei conflitti che esse innescano nell’animo delle persone – con la falsa rassicurazione. Ricade in questa tipologia il dire e il riecheggiare ossessivamente che a correre seri rischi per l’epidemia in corso sarebbero perlopiù gli anziani e, in particolare misura, coloro che già hanno patologie complesse. Il fatto che tutto ciò sia epidemiologicamente e statisticamente più che plausibile, nulla toglie al contesto, ai modi, agli interlocutori con il quale una tale comunicazione di riscontro viene fatta. Poiché il neanche troppo implicito o sottinteso di affermazioni di tale natura, in quanto loro corredo pressoché immediato, è che a potere morire siano concittadini il cui “valore sociale e civile”, in fondo, è di minore peso di quello altrui. Una sorta di darwinismo sociale indiretto, a compimento e suffragio del fatto che dalla lotta tra le classi sociali si è oramai transitati al conflitto intergenerazionale: i “vecchi” sono diventati degli abusivi; per quale ragione preoccuparsi del loro destino, quando sarebbe già segnato dall’incalzare del tempo nonché dalle loro debolezze? In fondo, la condizione che stiamo vivendo in queste settimane rivela il fatto che “non siamo mai stati moderni” fino in fondo: se la modernità è anche una condizione dell’animo individuale e collettivo che sa fare i conti con il senso della propria finitezza, senza per questo cadere in atteggiamenti sospesi tra la panicosità e il bisogno di superstizioni, allora rischiamo di rivelarci molto lontani da un tale obiettivo. Anzi, l’infodemia rischia di fare da moltiplicare delle incertezze e dell’irrazionalismo. Con buona pace di chi ci parla da pulpiti e cattedre di cera, nel mentre il calore dei timori circostanti rischia di scioglierne l’apparente solidità.
Claudio Vercelli