Una sentenza storica

Viviana KasamIn Italia i media, presi dal coronavirus, se ne sono occupati in modo sbrigativo, ma in America la condanna di Harvey Weinstein è stata salutata come una sentenza storica, una pietra miliare che cambierà per sempre i costumi e le abitudini degli americani.
A prima vista, a chi non è familiare con il sistema giuridico americano, potrebbe sembrare una vittoria mutilata. L’accusato è stato infatti assolto dai reati più gravi, e ritenuto colpevole, di fronte a una marea di testimonianze, solo di due reati di molestie sessuali aggravate.
Perché allora le paladine del #metoo esultano? Per comprenderlo è necessario partire dalla premessa che il sistema giudiziario americano è basato sulla common law, in forza della quale i giudici sono obbligati a conformarsi alle decisioni adottate in precedenti sentenze per casi analoghi. In questo modo le sentenze diventano precedenti vincolanti, fonte di diritto negli ordinamenti – e a tutt’oggi la maggior parte delle norme è prodotta proprio partendo da sentenze della common law. Questo significa che d’ora in poi ogni caso di strupro non si potrà prescindere dalla sentenza Weinstein. Che è rivoluzionaria per vari motivi. Per spiegarlo, attingo liberamente alle considerazioni di due giornaliste del New York Times, Jody Kantor e Megan Twohye, vincitrici del Premio Pulitzer nel 2017 per aver rivelato come Weinstein avesse messo a tacere accuse di stupro pagando profumatamente le sue vittime.
Innanzitutto, le due principali accusatrici di Weinstein hanno ammesso di aver portato avanti una relazione sessuale consensuale dopo lo stupro, addirittura per parecchi anni. In questi casi in precedenza non si arrivava al processo, perché la vittima veniva automaticamente considerata consenziente. Tant’è vero che Cyrus R. Vance, lo stesso pubblico ministero che ha istruito e vinto il processo contro Weinstein, nel 2015 aveva rifiutato di aprire un analogo procedimento per la modella italo-filippina Ambra Battilana Gutierrez, che aveva accusato Weinstein di aver tentato di violentarla – e aveva anche prodotto una registrazione. Che cosa è successo negli ultimi cinque anni per far cambiare atteggiamento? Non ci sono dubbi: è il movimento #metoo, che infatti considera questa sentenza la sua prima grande vittoria. Il principio insindacabile del movimento è “no is no”, ovvero non importa se due persone si conoscono bene, se hanno avuto rapporti precedenti o ne avranno di successivi. Quando uno dei due partner non vuole andare avanti, a qualsiasi punto dell’intimità, chi insiste e usa la forza fisica o psicologica è colpevole di stupro. Non facile da digerire, per società che fino a pochi anni fa – e in gran parte del mondo ancor oggi – giudicavano che una donna vestita in modo provocante “se l’era voluta” e quindi lo stupratore andava assolto.
Ma il caso Weinstein ha un sottinteso ancora più sottile, che potrebbe comportare un cambiamento epocale nel mondo del lavoro. Ed è quella della violenza del potere. Ovvero, la donna che cede alle insistenze di un uomo che ha potere sulla sua carriera – il produttore per l’attrice, il direttore di testata per la giornalista, il professore per la studentessa, il caporeparto per l’operaia – è una vittima anche se non c’è violenza fisica, perché deve acconsentire per perseguire le sue legittime aspirazioni (e questo vale anche nei casi in cui il potere lo detenga una donna, nelle coppie etero quanto in quelle lgbt). È facile dire: “poteva non accettare”. Per molte donne, e questo vale per le aspiranti dive come per le operaie, trovare o mantenere il posto di lavoro può dipendere dalla disponibilità sessuale, e chi impone un rapporto con la forza persuasiva del potere è comunque colpevole e può essere perseguito anche molti anni dopo. Non so in Italia, ma certamente in America politici, produttori, tycoons dovranno pensarci bene prima di richiedere una “prestazione sessuale”, orribile definizione che però ben rende l’idea del sesso usato per far carriera. E varrà sempre meno il costume, davvero aberrante ma invalso finora in America, di tacitare le vittime con un accordo economico che prevede la non disclosure, cioè vieta legalmente di divulgare quanto avvenuto e quindi anche di utilizzarlo a scopi legali. Grazie agli accordi di non disclosure, le vittime si trasformano automaticamente in colpevoli nel momento in cui volessero citare in giudizio il proprio stupratore e possono subire forti conseguenze economiche. La limitazione nell’uso degli accordi di non disclosure è uno dei primi punti del programma del movimento #metoo, che forte della vittoria si appresta ora a dar battaglia a molti altri tabù, per esempio i tempi di prescrizione per questo tipo di reato, o la definizione di che cosa sono da considerarsi molestie sessuali.
Comunque il caso Weinstein ha già avuto delle ripercussioni: tre giorni prima che il produttore venisse condannato, il candidato alla Presidenza americana Bloomberg, che non deve essere nemmeno lui uno stinco di santo, ha liberato tre donne dagli accordi di non disclosure, in modo che abbiano la possibilità di divulgarli. E il giorno successivo, Placido Domingo è stato costretto a rinunciare alla chiusura di un accordo di non disclosure da mezzo milione di dollari per sexual harassment.
C’è chi grida al Maccartismo (non per nulla Weinstein si è presentato alla Corte con sottobraccio la biografia del regista Elia Kazan, perseguitato da McCarthy come spia comunista). Forse non hanno tutti i torti: gli americani hanno una pericolosa inclinazione verso l’assolutismo, conoscono il bianco e il nero e ignorano le sfumature di grigio. Non per nulla gli Stati Uniti sono il Paese del Proibizionismo, che prima che una normativa è uno stato mentale. E le ripercussioni che questo atteggiamento radicale avrà sui rapporti tra uomini e donne, e soprattutto tra i giovani, è una domanda aperta.
Altri invece paragonano la sentenza a quella strappata negli anni ’70 da Ruth Bader Ginsburg , allora giovane avvocata, nel primo processo vinto per discriminazione sulla base del sesso e meravigliosamente raccontato nel film “Una giusta causa” – “On the basis of sex” nell’originale, diretto da Mimi Leder con Felicity Jones nei panni della protagonista, che fu la seconda donna a essere nominata Giudice presso la Corte Suprema statunitense. La sentenza portò a un radicale cambiamento nella normativa sul lavoro e fu il primo passo verso la conquista delle pari opportunità sul lavoro, purtroppo non ancora del tutto completata.

Viviana Kasam

(2 marzo 2020)