Gramsci era sionista
(o avrebbe potuto esserlo)
Un recente libro curato da Vincenzo Pinto (Egemonia Nazionale Gramsci, Medem e la questione ebraica nel Novecento, Belforte, Livorno, 2019) fornisce preziosi contributi sull’attualità del Bund (contiene scritti di Vladimir Medem, di Vincenzo Pinto, Giuliana Castellari e Chiara Osta), un palese ossimoro se lo si considerasse per quello che è, un reperto archeologico della politica ebraica, nondimeno assurto di recente in Italia ad ingiustificata gloria. Tuttavia, a prescindere dall’aleatoria giustificazione di questo successo, andrebbe considerato che se un pezzo di legno acquisisce la vita che in tesi gli sarebbe stata negata (quanto meno fino al momento in cui Carlo Collodi non prese in mano la penna), tocca disquisirne.
Il volume,come si diceva, reca scritti del bundista Vladimir Medem (1879-1923), i cui genitori si erano convertiti al luteranesimo. Ciò non toglie che Medem, malgrado il suo ruolo di massimo ideologo bundista, non abbia mai sentito il bisogno di (ri)convertirsi all’ebraismo, in quanto si considerava ebreo dal solo punto di vista culturale. Ne consegue che gli ebrei per lui non erano un popolo, non erano una religione, ma soltanto portatori (si suppone, sani) di una cultura. Una base obiettivamente fragilissima e contraddittoria, soprattutto per un marxista, ed il cui carattere incoerente si misura anche per il suo contrasto con le lotte del Bund per i diritti dei lavoratori durante lo zarismo ed in seguito per la difesa degli ebrei, accanto ai sionisti, contro l’occupante nazionalsocialista. Cosa avrebbero difeso, una cultura oppure un popolo?
Medem scrisse che “il nazionalismo ha contagiato tutti i popoli; l’ambizione assimilazionista e invece uno strano frutto. In nessun luogo essa e fiorita così bene come sul terreno ebraico e proprio da lì vogliamo iniziare a esaminarla. (…) Nell’aria primaverile dell’emancipazione, l’ebreo aveva ancora i brividi del duro inverno passato. L’indigeno, il natio, sente la sua forza, alza orgoglioso la testa; si e preso i ‘suoi’ diritti come cittadino del mondo, li ha sfruttati, usati ed e rimasto comunque francese o tedesco; l’ebreo tremante e percosso, abituato agli sputi in faccia, ha cosi iniziato a sputare sulla sua stessa nazione. Non ha trovato altro modo per tutelare i suoi diritti se non separandosi dalle sue peculiarità nazionali; per diventare cittadino del mondo doveva diventare un francese, un tedesco e così via”.
Ora, dal brano appena riportato, si evince una contraddizione: si fa riferimento alla nazione, quando si punta, invece, ad una qualificazione “culturale” degli ebrei. Sennonché, Medem identificava la cultura come nazionale, però, a sua volta, né considerava necessario il territorio né identificava negli ebrei determinate connotazioni di natura economica, come fece invece il sionismo marxista. Soprattutto, è paradossale che un luterano rifiuti l’assimilazione in quanto culturalmente ebreo.
Bisogna lasciar parlare Medem, laddove descrive “l’autonomia e, per dirlo con altre parole, l’amministrazione autonoma nazionale. Qui la nazione ha autorità solamente sulle questioni che riguardano la vita nazionale di per se, cioè sull’ambito culturale”. Anche ora il perno del bundismo è la sola cultura, staccata dalla religione, staccata dall’economia e, in tesi, appesa all’aria. Nei tempi brevi è una soluzione assai comoda ma, come tutto ciò che è in conflitto con la logica, finisce per trovare la prova della sua inanità nei tempi lunghi.
Il VI Congresso del Bund aveva rivendicato, fra altro, per gli ebrei “la possibilità garantita dalla legge per la popolazione ebraica di usare la propria lingua in tribunale, nelle istituzioni governative, territoriali e comunali nonché l’autonomia culturale nazionale”. Secondo Medem, la nazione ebraica esiste, ma e un’entità storicamente fondata su base (e adesione) volontaristica, quasi fosse stata un circolo culturale, priva quindi, tale adesione, di qualsiasi rapporto con le radici dell’individuo.
Invece, Pinto, nei riguardi di Antonio Gramsci, scrive che “mentre gli studiosi sono concordi nel ritenere il contributo di Gramsci non particolarmente innovativo sulla questione ebraica, malgrado alcune intuizioni interessanti, noi riteniamo che, approfondendo i concetti gramsciani di lingua, egemonia, ‘centro d’irradiazione’, cultura nazionalpopolare e Stato ‘integrale’, sia possibile giungere a una lettura ‘sionista’ della questione nazionale ebraica”. Su Gramsci, asserisce che la visione “della questione nazionale ebraica in seno al marxismo dell’epoca avrebbe rappresentato un terreno fertile di riflessione per l’intellettuale sardo e rappresenta un tema della filosofia della prassi”.
Un’opera assai stimolante, che sarebbe opportuno consigliare ai giovani, se non altro come reazione ad un periodo in cui le persone colte, al posto della cultura impegnata, si cimentano con passione nella cultura indignata.
Emanuele Calò, giurista
(3 marzo 2020)