Periscopio Il cuore d’oro di Eumèo
Se non fosse una vicenda molto seria e triste, ci sarebbe da ironizzare sul fatto che molti italiani, in questi giorni, vengono respinti da numerosi Paesi stranieri, in quanto considerati pericolosi untori, e, quando si trovano già all’estero, sono cacciati, a volte in malo modo, da ristoranti, Musei e luoghi pubblici. Anche se non mangiamo topi vivi, non tutti ci amano, evidentemente. Non, comunque, di un amore così forte da mettere minimamente a repentaglio la propria salute e sicurezza.
Finora, da anni, siamo stati abituati a discutere e a litigare soltanto su quanto dovessimo essere accoglienti o severi nei confronti di quelli che bussano alla porta di casa nostra: farli entrare a braccia aperte, offrendo ghirlande di fiori, come fanno le ragazze hawaiane nel dare il benvenuto ai ricchi turisti stranieri? O cacciarli tutti a pedate? O qualche atteggiamento intermedio? Comunque, tutti noi, buoni e cattivi, ecumenici o sovranisti, a essere oggetto di respingimenti, controlli e selezioni non eravamo proprio abituati. E – se, ripeto, non fosse una cosa triste e seria – ulteriore ironia sarebbe suggerita dal fatto che le zone più colpite dal virus sono proprio quelle più ricche e benestanti, nelle quali ha preso particolarmente piede il fiero ed egoistico slogan del “prima gli italiani” (che ha sostituito il precedente “prima il Nord”). Facile immaginare quali sarebbero stati i commenti se il focolaio del virus fosse stato individuato, per esempio, nel sud della Calabria: certamente qualcuno avrebbe proposto di ergere un muro di separazione, come quello tra Stati Uniti e Messico, o quello costruito da Crasso, nel 72 a.C., per bloccare ogni via di fuga agli schiavi ribelli.
Siamo tutti sulla stessa barca, si sente spesso dire. Sarà, ma il fatto è che molta gente, in barca, insieme agli altri, non ci vuole proprio stare. Molto meglio, per molti, starsene da soli, in una illusoria sicurezza, che in compagnia, se la vicinanza agli altri implica una pur minima possibilità di rischio, pericolo, diminuzione di benessere o sicurezza. Sono stati molto citati, in questi giorni, La peste di Camus, I promessi sposi di Manzoni (nella parte sulla peste di Milano) e Cecità di Saramago, tutte opere che hanno illustrato, in diversi modi, come gli uomini, di fronte a situazioni di comune difficoltà, siano naturalmente portati a dare il peggio di sé. È facile andare d’accordo quando si è tutti sani, benestanti, allegri, magari in una bella vacanza. Ma Primo Levi racconta che nei Lager gli internati vedevano, nei compagni di sventura, non dei sodali a cui appoggiarsi, ma dei rivali, o dei nemici, da cui difendersi.
Il problema del rapporto con l’altro, nei momenti gravi, è, da sempre, il primo misuratore di cosa sia, cosa debba essere la civiltà umana. Dei versi, provenienti da un remoto passato, danno, al riguardo, una straordinaria lezione. Quando Itaca è infestata dalla sinistra presenza dei Proci usurpatori, Eumèo, il vecchio servitore di Ulisse – assente da casa da ormai vent’anni, e dato ormai per morto -, riceve la visita un vecchio, lacero e sporco mendicante. Non c’è certo molto da dividere, e poi, perché darsi da fare per un essere di così infimo rango, da cui, certamente, mai potrebbe venire alcunché in cambio? E chi sa di quante malattie contagiose poteva essere portatore… Ma Eumèo lo accoglie amorevolmente, e gli dà da mangiare, condividendo con lui il dolore per il suo re disperso. E, nel descrivere le parole da lui rivolte al mendicante, Omero scrive che parlava “al suo re”. Questa consapevolezza, che il naufrago fosse in realtà Ulisse, è del poeta, non di Eumèo, che ignora, in quel momento, tale identità. Eppure, io credo che Omero, nell’usare quell’espressione (“rivolto al suo re” [Od. XIV.45]), alludesse anche a un’altra cosa, con la sublime ambiguità della più alta poesia: quell’uomo misero e sconfitto, quello “scarto della terra”, era “il suo re” non solo perché era davvero, sotto falsa identità, il re di Itaca, ma proprio per il suo essere un uomo fragile, bisognoso, come “un gher in terra d’Egitto”.
Passano i millenni, ma gli uomini, in fondo, restano sempre gli stessi: sempre in bilico, ieri come oggi, tra gli spietati e crudeli ciechi di Saramago, che la comune sventura trasforma in una comunità di mostri feroci, e il cuore d’oro di Eumèo, che, in attesa del suo sovrano, che forse mai più tornerà, si inchina di fronte a un ultimo degli ultimi, come se fosse (e come era) “il suo re”.
Francesco Lucrezi