Una vittoria paradossale
Chiamare paradossale la vittoria di Benjamin Netanyahu nelle elezioni israeliane del 2 marzo, una vittoria da molti definita schiacciante, può sembrare, appunto, un paradosso. Ma a guardare le cose con attenzione alcuni aspetti paradossali emergono.
Il primo – e non è una novità – è costituito dal fatto che i migliori alleati della destra israeliana si sono rivelati da un lato Hamas e la Jihad islamica, dall’altro la stessa Olp, senza dimenticare la minaccia, sullo sfondo, della teocrazia iraniana. È comprensibile che un Paese che continua ad essere permanentemente oggetto di minacce di distruzione da parte di quest’ultima e ad essere oggetto di pesanti lanci di razzi sulle città del Sud da parte delle due organizzazioni terroristiche che hanno sede a Gaza privilegi l’appoggio al governo in carica e all’uomo che finora ha rappresentato una linea di intransigenza. A ciò si aggiunge la politica quanto meno ambigua dell’OLP, che, mentre si propone a parole come interlocutore, nello stesso tempo ha adottato una linea estremistica che, di fatto, la avvicina alle altre organizzazioni palestinesi.
Ma non è questo l’aspetto più paradossale della vittoria di Netanyahu. Il vero paradosso consiste nel fatto che una vittoria certamente ampia sul piano politico non consenta di fatto al partito e al leader vincitori di governare per l’intera legislatura realizzando il proprio programma elettorale. Il blocco di centro-destra non raggiunge infatti, anche in questa occasione, la maggioranza assoluta, pur avvicinandovisi molto. Per comprendere questo paradosso occorre andare oltre gli stessi risultati elettorali e porsi, una volta di più, il problema del sistema politico vigente in Israele (e non solo in Israele) e chiedersi se esso sia adeguato alle esigenze di una democrazia avanzata e di un Paese economicamente assai sviluppato.
Il sistema politico israeliano si basa su una forma estrema di parlamentarismo; estrema perché alla centralità della Knesset nell’equilibrio dei poteri si accompagna un sistema elettorale iper-proporzionale che favorisce la frammentazione delle forze politiche. Forse è arrivato il momento di chiedersi se il sistema democratico coincide con il parlamentarismo e se non è il caso di individuare forme di equilibrio tra i poteri dello Stato diverse da quelle attuali, forme nelle quali sia assicurata la certezza della governabilità senza rinunciare alle garanzie democratiche del controllo dell’Esecutivo. Può sembrare la quadratura del cerchio ma forse non lo è, se si pensa che in altri Paesi esiste un equilibrio tra i poteri dello Stato diverso da quello basato sul primato assoluto del Parlamento: gli esempi sono quelli consueti degli Stati Uniti e della Francia.
Come si ricorderà, Israele sperimentò anni addietro, in base ad una legge del 1992, una forma di premierato imperfetto. Imperfetto perché il premier era sì eletto direttamente dagli elettori ma doveva poi ricevere la fiducia della Knesset; quest’ultima condizione vanificava, di fatto, la forza che al premier sarebbe derivata dal mandato popolare diretto e infatti il sistema fu abbandonato dopo tre prove elettorali, quelle del 1996, 1999 e 2001. Dopo tre elezioni consecutive che non hanno consentito la formazione di una maggioranza stabile sembrerebbe arrivato il momento di ripensare alla possibilità di introdurre il sistema del premierato, mantenendo – e se è il caso rafforzando – il sistema di garanzie costituito, in particolare, da un Capo dello Stato espressione di un’ampia convergenza tra le forze politiche e da una magistratura effettivamente indipendente.
Che l’esigenza di stabilizzare i poteri del Governo esista anche al di fuori di Israele lo dimostra anche la proposta cosiddetta del “sindaco d’Italia”, avanzata da Matteo Renzi, che va nella stessa direzione. Una proposta che sembra offrire maggiori garanzie di equilibrio tra i poteri dello Stato rispetto a quella, fatta propria dai partiti di destra, dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica, al quale, naturalmente, dovrebbero poi essere attribuiti poteri adeguati.
Per affrontare problemi così complessi di riforma del sistema politico occorrerebbero partiti capaci di guardare più lontano dell’immediato tornaconto elettorale. Una condizione che appare di difficile realizzazione in Italia, mentre potrebbe non essere impossibile in Israele.
Valentino Baldacci
(5 marzo 2020)