Studiare il mondo arabo
“Gli ebrei si illudono ancora di non appartenere al Medio Oriente. Di essere capitati qui per caso”. La voce è quella di Yohanan Rivlin, fittizio professore di storia mediorientale all’Università di Haifa e protagonista della Sposa Liberata (Einaudi, 1998). Un’opera questa molto particolare che oltre ad alternarsi continuamente con dialoghi in arabo levantino offre alcune interessanti riflessioni sulla storia politica e religiosa dell’Algeria, le quali non sono passate inosservate neppure a specialisti del settore.
In numerose occasioni Abraham Yehoshua ha contestato il “diasporismo” ebraico affermando che l’identità ebraica può compiersi e acquistare significato solo in Eretz Israel, proprio all’interno di uno stato ebraico, l’israeliano per lo scrittore sarebbe dunque l’”ebreo realizzato”. Per Yehoshua inoltre, parrebbe che questa specifica identità medio-orientale non possa prescindere dal relazionarsi con il mondo e con la cultura araba. In un’intervista sull’Express, Yehoshua affermò perentoriamente che, “noi dovremo vivere in ogni caso con gli arabi per l’eternità”. Nei suoi romanzi i personaggi arabi hanno sovente un ruolo salvifico, ricordano come per Martin Buber un’origine e un destino comune, difatti alla stregua del pensatore austriaco anche Yehoshua negli ultimi tempi ha ripensato la soluzione binazionale e confederale. Nel penultimo intervento su queste pagine Giorgio Berruto ricordava che alcuni al giorno d’oggi sostengono Israele solo perché lo considerano un paese razzista e anti-arabo, viene commesso così l’errore condiviso da più parti che essere sionisti o israeliani significhi automaticamente essere anti-arabi. Ma in realtà persino non pochi israeliani di origine mizrahi che votano a destra difficilmente potremmo considerarli anti-arabi, proprio per l’essersi formati in una cultura sostanzialmente arabo-ebraica. Mi viene in mente per l’appunto il bel libro di Ron Barkai, Come in un film egiziano (Giuntina, 2001), il protagonista di origine egiziana, Yosef Alfandari, è un accanito anti-comunista e “odiatore di arabi” ma al tempo stesso un fervente amante della lingua e della musica di Umm Khultum. Un paradosso non così infrequente. Proprio come Yohanan Rivlin, non pochi islamisti e arabisti sono israeliani o erano di famiglia ebraica, in Italia si ricordi Giorgio Levi della Vita, uno tra gli “orientalisti” più celebri prima dell’avvento del fascismo. Alcuni tra loro, come per esempio Bernard Lewis, sono diventati in seguito tra i principali punti di riferimento dei neoconservatori statunitensi e della destra sionista. In realtà Lewis, per quanto abbia sostenuto la guerra in Iraq ed espresso criticità sull’Islam contemporaneo soprattutto, davvero difficilmente potremmo considerarlo un islamofobo. Daniel Pipes, molto apprezzato negli stessi ambienti, nella critica al mondo arabo è ben più radicale di Lewis, per quanto anche egli abbia sempre operato dei distinguo all’interno dell’Islam. Pipes dopo la Guerra dei Sei giorni studiò islamistica e lingua araba per tre anni al Cairo, qui ha scritto anche una dissertazione sull’arabo vernacolare parlato in Egitto. Qualche accademico si è domandato, specie nei confronti di Lewis, “come sia possibile studiare tutta la vita un popolo e una cultura che si detesta”, lo storico Ian Buruma concluse che forse “Lewis amava troppo il mondo arabo, un amore che per gli storici dell’Oriente si trasforma in amara impazienza quando la realtà non riesce a conformarsi all’ideale, e si ravvisa una malattia nella civiltà amata”.
Francesco Moises Bassano