Il virus post-democratico
C’è una cosa, tra le altre, che la diffusione dell’epidemia di Coronavirus ci segnala con particolare prepotenza, ossia che i tempi di decisione, in una democrazia che voglia restare tale, sono troppo lunghi rispetto ai fenomeni che si accompagnano alla veicolazione di cose, persone, idee ed anche micro-organismi in età globale. Viralità e volitività non sono mai coincidenti: la prima è tale poiché si basa sulla velocità, sulla moltiplicazione – spesso a rete -, sulla sua manifesta incontrollabilità, quanto meno fino a che non abbia iniziato ad esaurire i suoi effetti; volitività, per quanto possa anche essere fatta corrispondere a capacità decisionale, implica cognizione degli eventi, loro rielaborazione critica, formulazione di risposte: un insieme di processi che, per loro intrinseca natura, richiedono tempo. Spazio e tempo sono peraltro due coordinate mutevoli, fortemente vincolate alle età storiche che si intendano prendere in considerazione. E ciò che definiamo con la stessa espressione di «età storica» è da intendersi sempre e comunque come una condizione di permanente mutevolezza nelle relazioni sociali, nei rapporti di potere, nei campi di forze, nei modi di produrre e riprodurre. La storia è, in fondo, il racconto di come le cose cambino e di quanto ciò che in un’epoca, magari neanche troppo lontana, poteva apparire come indispensabile, sia poi velocemente divenuto inutile o comunque inefficace ed inefficiente. In questo caso, se torniamo al nostro presente, l’obsolescenza dei sistemi di formazione e di implementazione delle decisioni, si manifesta ancora più velocemente della diffusione della stessa epidemia in corso. Non è il caso di scomodare teorie complottistiche o quant’altro. Più semplicemente – e se si vuole, drammaticamente – bisogna prendere atto che la politica, e con essa il complesso e articolato apparato di pubbliche amministrazioni, non riescono a fronteggiare una sfida che mette in discussione ciò che – in fondo – c’è più caro, ossia l’abitualità dei costumi di vita quotidiani. Siamo quindi sconfitti a priori? Dobbiamo dichiarare perduta la guerra contro nemici così insidiosi? Dobbiamo ritenere che obsolescenza, in questo ed altri casi, implichi inutilità? No, non è così. Semmai la condizione che stiamo vivendo ci dice che siamo entrati da tempo in un’età dell’incertezza. Da essa, al netto della soluzione a venire dell’epidemia che è in corso, non ne usciremo. Non le nostre generazioni, comunque. Siamo figli immemori della precarietà che ha dominato i destini di buona parte dell’umanità fino alla fine dell’ultima guerra mondiale. Dopo la quale, ci siamo cullati, in quanto popoli che hanno goduto di un benessere diffuso, nella convinzione che per noi (degli «altri» ci siamo sempre interessati poco o nulla, ad onore del vero) lo standard definitivo fosse quello che coniugava prevedibilità a calcolabilità, razionalità ad abbondanza, libertà a progettualità. Già da tempo questi binomi si sono interrotti. Il Coronavirus si incarica, a modo suo, di ricordarcelo. Non c’è nessuna apocalisse alle porte ma un nuovo ordine nelle relazioni sociali, al momento dai tratti ancora indefiniti, che però andrà inesorabilmente affermandosi e riflettendosi sull’esistenza di ognuno di noi. Gli assetti democratici che in una parte del mondo, la nostra, erano sorti dopo la grande fenditura della guerra, sono chiaramente affaticati ed in declino. Non sarebbe di per sé neanche un dramma se non fosse per il fatto che l’esistenza di molti nostri contemporanei è sempre più spesso contrassegnata dal nuovo binomio dominante, quello che lega precarietà a fragilità. Condizione alla quale si risponde spesso in termine regressivi, così come fanno gli animali quando, una volta feriti, cercano un riparo per ottenere una qualche forma di protezione. Infatti, si può stare certi che la domanda di politica, nei tempi a venire, sarà sempre più spesso dominata non dalla richiesta di una libertà della quali i più (senza risorse) non sanno cosa fare; e neanche di un principio di giustizia che è stato abbondantemente rimesso in discussione, come ideale prima ancora che come obiettivo di fatto, e non da oggi; bensì, a ben vedere, di una qualche forma di riconoscimento del proprio disagio – di qualsiasi genere esso sia, a partire da quello economico – e di una paternalistica protezione paracadutata dall’alto. Vedere per credere, a partire dai prossimi mesi, quando gli effetti di ricaduta nel lungo periodo del virus che ci accompagna si faranno sentire. Ai colpi di frusta, peraltro, non si risponde con le prediche e neanche con le esortazioni. Chi sta nelle sabbie mobili, non guarderà da quale parte gli arrivi la mano che cerca di aiutarlo a non esserne sopraffatto e sommerso. Un solo rimando, per intenderci: chi si trova a Lesbo, l’isola al centro della delirante crisi umanitaria generata dalle ondate di profughi, racconta di come fino all’apertura dei confini da parte di Erdogan, la popolazione locale fosse perlopiù solidale con i rifugiati acquartierati nei centri di raccolta; ora, dinanzi all’ingestibilità della situazione che si è venuta velocemente creando, non pochi danno man forte ai militanti neonazisti di Alba dorata, dediti alla «caccia all’uomo». Tanto per dire.
Claudio Vercelli
(8 marzo 2020)