“L’informazione ha un ruolo centrale,
serve maggiore verifica delle fonti”

daniela ovadiaDa un lato l’emergenza sanitaria in corso ha fatto emergere l’importanza del ruolo dell’informazione, dall’altra ha portato alla luce molti dei suoi limiti quando si parla di scienza e di verifica delle fonti. Lo spiega a Pagine Ebraiche la giornalista scientifica Daniela Ovadia, condirettore del Neuroscience and Society Lab dell’Università di Pavia. Membro della Comunità ebraica milanese, Ovadia sottolinea l’importanza della decisione di chiudere le sinagoghe e di dare un esempio anche a livello comunitario sulle buone pratiche da seguire per evitare il diffondersi del contagio.

Dal punto di vista di una giornalista scientifica, come valuta l’informazione italiana davanti all’emergenza sanitaria?
Questa crisi ha mostrato le corde del giornalismo italiano, in particolare nell’ambito scientifico. Quando una testata dimostra un’incapacità di comprendere le fonti scientifiche o di avere una prospettiva obiettiva sui fatti di cui sono a conoscenza, ovviamente non aumenta la mia fiducia sulla capacità di coprire questo e gli altri temi. Mi chiedo che tipo di visione del loro lavoro hanno i colleghi giornalisti.

Una delle grandi polemiche legata a questi giorni è la pubblicazione in anticipo della famosa bozza del governo sulle nuove misure per la Lombardia e altre province contro il contagio. Quale è stata la sua impressione in merito?
Mi sono trovata a discutere con una collega che difendeva a spada tratta il comportamento dei giornalisti che hanno diffuso la bozza del decreto in anticipo (sabato 7 marzo). Lei sosteneva che la nostra deontologia è che se hai una notizia devi pubblicarla ed essere il primo. Per me, la nostra deontologia dice: A, la verifichi; B, la pubblichi con il frame ‘si sta discutendo di..’ non lo spari come un dato di fatto; e comunque esiste anche nella deontologia giornalistica la responsabilità sociale.

Molti giornali hanno sostenuto che pubblicare la bozza fosse un dovere sociale.
Capisco che esista un ruolo sociale di sorveglianza della democrazia per cui un giornalista possa dire: ‘si sta facendo un decreto che limita le libertà personali, ho il dovere di avvisare il pubblico perché questo è il mio ruolo di watchdog’. Però nello stesso tempo devo inserire questa valutazione nel contesto. Se fossi nel Cile della dittatura e uscisse una cosa del genere avrei diritto di allertare tutti su un problema di perdita della libertà individuale. Ma nel contesto in cui viviamo, di emergenza sanitaria, se lo faccio sono un irresponsabile. Se c’è un lockdown da Roma in giù è perché i media hanno anticipato un decreto che ha portato la gente a sparpagliarsi in giro per l’Italia, là dove non ci sono strutture sanitarie in grado di affrontare l’emergenza.

Nel 2017 avete pubblicato assieme a Silvia Bencivelli un volume (È la medicina, bellezza! Perché è difficile parlare di salute, Carocci editore) in cui si smontavano diverse fakenews pseudoscientifiche, rilanciate anche dai giornali considerati autorevoli. A distanza di tre anni, è cambiato qualcosa?
Ieri tutti i giornali riportavano la bufala della trasmissione area del virus che resiste 30 minuti nell’aria, eccetera. Lo studio è uscito su una rivista predatoria: sono riviste pseudoscientifiche, in cui si paga per pubblicare perché serve per avere titoli. I giornalisti scientifici lo sanno e infatti la notizia sulla ‘trasmissione area’ è stata subito segnalata. La rivista ha ritrattato il lavoro, dopo averlo pubblicato e dopo che i giornali l’hanno rilanciata senza verificare. I giornalisti scientifici continuano quindi a non essere coinvolti per niente sulla copertura di queste cose. Nelle redazioni siamo sempre meno. Quasi tutti freelance ed esterni.

All’estero funziona diversamente?
In questi giorni io ho scritto vagonate di articoli per giornali di Hong Kong, per il Tagesspiegel in Germania, per Nature, per i giornali inglesi, e non ho scritto una riga per i giornali italiani, i miei media. Questo qualcosa vorrà pur dire qualcosa. Mi cercano da Berlino perché hanno paura e i giornalisti si dicono ‘dobbiamo dare i nostri lettori notizie verificate e corrette’ ma da noi non abbiamo questa accortezza.

Dove è possibile reperire allora da noi fonti valide su cui informarsi?
In questo momento la copertura più seria in Italia è fatta sui social media, checché ne dicano i soloni.. Fior di professionisti stanno mettendo il loro tempo a disposizione per chiarire la situazione: da Roberta Villa a Dario Bressanini, da Beatrice Mautino ad Adrian Fartade. Sono divulgatori e giornalisti scientifici che ospitano contributi di persone serie, raggiungono migliaia di persone e vengono condivisi. Tutto a titolo gratuito, fatto per la comunità. Questo dovrebbe far riflettere.

Si inverte il ruolo del social network diffusore di fakenews?
No rimane, ma spesso le prime a pubblicare notizie false, poi diffuse sui social, sono le nostre testate giornalistiche. Certo esiste il complottismo dei singoli e tutto il resto, ma non possiamo più dire che esiste un controllo delle fonti nei media tradizionali.

Quanto è importante la revisione da parte della rivista a cui si invia un articolo?
La mia esperienza del fact checking mi dimostra che è veramente un lavoro a sé. Ogni articolo che ho mandato all’estero viene verificato e mi richiede almeno un paio di ore rispondere alle domande dell’editore. Mi si chiedono le fonti. Spesso dall’Italia mi sono trovata a dover dare loro fonti di seconda mano perché certe notizie sono riportate dai media ma non esiste una fonte primigenia istituzionale.

Per esempio?
Da quando il virus è in Italia? Questa cosa è stata retrodatata alla fine del mese di dicembre sulla base di alcune segnalazioni di medici di base dell’area di Codogno. Dicevano che il primo caso è stato il al 20 di gennaio, il famoso paziente uno, ma da settimane vedevamo queste polmoniti che si trascinavano. Questa cosa è un dato interessante dal punto di vista scientifico ma non c’è stata una ripresa di questo dato da parte dell’Istituto Superiore di Sanità né per confermare né per dire che ci stanno lavorando sempre. È un dato importante, me lo hanno chiesto tutti i giornali stranieri ma io non ho potuto che dare fonti di seconda mano, articoli usciti su giornali locali che riportavano l’innalzamento del numero di polmoniti. Alcuni giornali stranieri mi hanno detto, non la riportiamo perché noi l’aneddotica non è una fonte sicura. In una situazione d’emergenza questo è il modo di fare il factchecking. Mentre da noi si pubblica una bozza di un decreto quasi fossimo dei passacarte, senza verificare come mai sia stata mandata, senza chiedersi se magari c’è qualcuno che ci sta usando, che vuole scatenare il panico o viceversa non vuole che il decreto venga firmato.

Ha citato un giornale tedesco per cui ha scritto, qual è la situazione lì?
In Germania c’è un problema di classificazione che è un problema politico: hanno un numero non indifferente di contagiati ma fino a ieri avevano zero morti. Uno si chiede come è possibile se in tutto il mondo la mortalità, o meglio la letalità tra i contagiati, è al 2,4%? Era ovviamente una scelta politica. Il sistema di classificazione della mortalità in Germania prevede che se un cardiopatico diabetico contrae il covid-19 e muore perché ha l’organismo già debilitato, allora la causa di morte principale è la malattia cronica. Noi li classifichiamo come morte da covid, loro come morte cardiovascolare. E questa è la ragione ma è una scelta anche politica di non andare a vedere le concause perché il timore è che l’economia globale non regga a questa epidemia. E quindi la Germania è preoccupata. Ed inoltre è convinta che siccome hanno moltissimi posti letto non avranno un impatto di mortalità così devastante perché saranno in grado di curare tutti. Il collega giornalista tedesco mi diceva che questo è wishful thinking però non sai sapere. In Francia invece la crescita è simile alla nostra: loro sono dove eravamo noi due settimane fa e cominciano a chiudere scuole ma la risposta è ancora lenta.

In Italia ora tutti dovrebbero cercare di mantenere l’autoisolamento. Quanto è importante dare l’esempio come singoli e come Comunità?
È importantissimo. Per questo inizialmente mi ha fatto molto arrabbiare sapere che le sinagoghe erano aperte. Dobbiamo dare l’esempio, è essenziale stare isolati. La Comunità ebraica di Milano lo ha capito e ha mandato un messaggio a tutti i suoi iscritti con la richiesta di chiudere le sinagoghe nel rispetto del decreto governativo. È importante soprattutto per le persone più anziane che sono le più recalcitranti a rispettare i divieti. Hanno le loro abitudini e fanno difficoltà a cambiare stile di vita, ad esempio non andando in sinagoga per fare minian durante la settimana. Il fatto che Milano abbia chiuso i Bate HaKnesset ha aiutato molti di noi figli a non dover litigare con i nostri genitori per dire loro di stare a casa. Continuiamo a dare l’esempio. E in questo momento cerchiamo di sentirci comunità, ad esempio utilizzando i mezzi informatici. La scuola ebraica, mi dicono, lo sta facendo con ottimi risultati per la didattica. La gente a Milano è molto angosciata, e sentire che non si è soli alleggerisce di un peso.

Daniel Reichel