Periscopio – Israele, la sconfitta del sistema elettorale
Anche stavolta, nel commentare l’esito delle elezioni in Israele, avverto un senso di disagio, in quanto la forte divaricazione e contrapposizione dell’opinione pubblica, dentro e fuori del Paese, mi fa avere la sensazione che anche la scelta di una sola parola, di uno solo aggettivo al posto di un altro, possa farmi iscrivere a una delle due contrapposte fazioni, cosa che assolutamente non intendo fare. I partiti, com’è noto, sono ben più di due, e sono molto diversi l’uno dall’altro, e anche all’interno di ciascuno di essi si registrano posizioni sensibilmente diverse. E i singoli elettori, che votano per questo o per quello, sono forse tutti uguali, sono fatti con lo stampino? Ovviamente no, ma la radicalizzazione dello scontro porta proprio a questa percezione, ossia la spaccatura tra due blocchi frontalmente contrapposti, uniti l’uno dall’entusiastico, orgoglioso, rabbioso appoggio al Premier in carica, e l’altro dall’irriducibile, sdegnata, livorosa opposizione allo stesso. Nessuna sfumatura, nessuna mezza misura, nessun passaggio intermedio. O con lui, a ogni costo, o contro, a ogni costo. Una situazione molto triste, che è il contrario della mia idea di democrazia, considerata spazio di confronto, dubbio, mediazione, compromesso, paziente e ponderata ricerca di possibilità di sintesi, di soluzioni realistiche e condivise.
Pazienza, non è certo detto che la mia idea di democrazia sia la migliore. Ho il diritto di dire, però, che molte cose non mi piacciono. Il premier uscente ha raccolto molti voti, ha dimostrato di godere ancora di una estesa popolarità, ed è certamente vero che, al momento, sembra la persona intorno alla quale si potrebbe coagulare la più ampia coalizione di sostegno parlamentare. Gli vanno tributati senz’altro auguri sinceri, con l’auspicio e la fiducia che sappia mettere tale consenso al servizio del suo Paese, e dei particolari valori che la democrazia israeliana rappresenta. E auguri di buon lavoro vanno rivolti, con spirito analogo, a coloro che hanno perso, o “non vinto”. In democrazia dietro ogni singolo voto c’è una persona, e ogni persona conta.
Sul piano operativo, il problema, com’è noto, è che, al momento, i parlamentari disposti ad appoggiare un nuovo governo a guida Likud non sembrano raggiungere la maggioranza richiesta. Se ci sarà qualche cambiamento, tale da permettere questo risultato, Israele avrà finalmente un regolare governo, e di ciò non ci si potrà non compiacere. Ma, se così non sarà, la situazione tornerà a essere difficile. L’idea di nuove elezioni mi pare semplicemente folle, e non capisco proprio in base a quale ragionamento i deputati contrari al premier vengano sottoposti, dai suoi sostenitori, a violenti attacchi personali, per il fatto di non volersi piegare a quella che sarebbe la presunta “volontà del popolo”. Anche questo mi pare l’opposto della democrazia. E poi, se la “volontà del popolo” dovesse essere interpretata in modo così automatico e semplicistico, tale volontà direbbe, se due più due fa quattro, che l’attuale capo del governo deve lasciare il suo incarico, dato che, al momento attuale, la maggioranza della Knesset è composta da deputati che si erano pronunciati, in campagna elettorale, in questo senso. Come non ho mai condiviso la criminalizzazione dell’attuale premier (che, fra l’altro, credo che non abbia pagato, in termini elettorali), così non condivido la criminalizzazione dei suoi oppositori.
C’è poi la questione del processo penale incombente. Riguardo al quale la mia posizione è identica a quella nei confronti del risultato delle elezioni: massimo rispetto per la responsabilità, l’intelligenza e la libertà di giudizio degli elettori, massimo rispetto per la professionalità, l’autonomia e l’indipendenza dei giudici. Il tutto nella difesa intransigente della divisione dei poteri, che è presupposto irrinunciabile di una vera democrazia. Alcuni discorsi che ho letto, secondo cui gli elettori che hanno votato per il partito del premier, o per i suoi potenziali alleati, lo hanno fatto nella consapevolezza del processo giudiziario in corso, e quindi il “giudizio del popolo” ci sarebbe già stato, ovviamente in senso assolutorio, mi sembrano segnare un regresso di millenni. E poi, chi si ostini a ragionare in questo modo bizzarro, non dovrebbe forse concludere che “il popolo” ha espresso un giudizio di condanna, dal momento che la sua maggioranza, quella confluita in 62 seggi parlamentari su 120, sarebbe contro l’imputato? Ma sono ragionamenti del tutto assurdi, distanti anni luce dallo spirito di ogni cultura giuridica degna di questo nome, e soprattutto di quella ebraica, che pone alla base della civiltà umana, come ineludibile precetto “noachide”, ossia valido per l’intera umanità, l’esigenza di affidarsi a legittimi tribunali, che giudichino secondo giustizia. E non secondo gli umori del popolo.
Forse anche Israele, al pari di altri stati democratici (come gli Stati Uniti e la Francia), vuole dotarsi di un sistema di garanzie particolare, in grado da sottrarre sostanzialmente il capo del governo, per la durata del suo mandato, al giudizio della magistratura? O, al contrario, intende introdurre nel proprio sistema giuridico un principio di incompatibilità, che impedisca a chi sia sotto processo di guidare il Paese? Si può fare l’una e l’altra cosa, nessuna delle due è scandalosa (anche se nessuna delle due mi piace: la prima può essere funzionale a un sistema presidenziale, non parlamentare; la seconda sovraccaricherebbe la magistratura di compiti che non dovrebbero essere suoi, e lederebbe la presunzione d’innocenza). Ma, trattandosi di regole generali, queste dovrebbero essere decise insieme, a bocce ferme, senza pensare a casi specifici e a situazioni personali. Ed è proprio questo, invece, che si vuole fare.
Se un sicuro vincitore, in queste ultime elezioni, non c’è, c’è sicuramente, però, uno sconfitto certificato, ed è il vigente sistema elettorale israeliano. Ha funzionato in altri tempi, oggi non funziona più. Ma cambiarlo, in questo momento, è difficile: anche la democrazia israeliana pare in quarantena, non ci si può avvicinare.
Francesco Lucrezi, storico