Nulla cambierà

calimani darioLa settimana scorsa mi è stato chiesto se pensassi che questa emergenza sanitaria, una volta superata, potrà produrre un cambiamento nel nostro modo di essere e di pensare. La mia risposta è stata che non mi aspettavo proprio nulla: resteremo quello che siamo, e, finito lo shock del nostro isolamento forzato, torneremo quelli di prima. E poiché, in quanto umani, ci realizziamo al meglio levandoci al di sopra degli altri, qualche caro amico – non uno soltanto – ha giudicato che la mia risposta fosse banale. Ed è vero, lo ammetto, è stata banale. Avrei riscosso, infatti, più consenso se avessi detto che dopo l’emergenza virus diventeremo di sicuro tutti più buoni, tutti più saggi, tutti più accorti, tutti più altruisti. Ma, naturalmente, avrei mentito spudoratamente, perché non lo credo affatto, e l’ottimismo melenso e sdolcinato non è mai stata la mia tazzina da tè, la mia opzione preferita.
Se ho mentito, infatti, ho mentito per eccesso di ottimismo. E lo vediamo nei giorni difficili che stiamo trascorrendo nell’ansia, nell’inerzia e nel tedio. Ci si sarebbe potuti aspettare che di fronte a una catastrofe collettiva, di dimensioni globali, tutti avremmo recuperato quel po’ di senso comune, quel po’ di saggezza e quel po’ di unità che potesse giovare a tutti noi in un percorso comune verso la salvezza. E invece no. Se si escludono gli eroi disinteressati che stanno consapevolmente sacrificando se stessi per assistere i contagiati, vediamo politici meschini continuare a fare opposizione demagogica e a proporre l’ovvio e l’improponibile, come se il loro solo interesse fosse quello di raccogliere consensi e voti anche in momenti tragici come questi. E non osiamo pensare che cosa sarebbe successo se al potere, in un frangente come l’attuale, ci fosse stato qualche roboante rodomonte con le sue argute boutade. Ma vediamo anche amici farsi beffe dei decreti eccezionali approvati dal governo e, noncuranti, uscire a fare la loro passeggiata, perché le regole valgono per gli altri ma non per noi stessi. Perché tutti gli animali sono uguali, come diceva Orwell, ma alcuni sono più uguali degli altri, con più diritti e privilegi. Ossia, gli altri devono rinunciare, ma io no, e se mi ferma un controllo avrò sempre pronta una scusa da sciorinare per giustificare la mia eccezionalità.
Nulla cambierà dopo l’emergenza, ma qualcosa sta invece cambiando nel presente. È già cambiata, ad esempio, la valutazione del valore della vita umana. Ci stiamo abituando a considerare il male minore, un male inevitabile, la morte degli anziani. L’importante è che sopravvivano i giovani. Dei vecchi si può anche fare a meno. Torna alla mente la leggenda dei bimbi lasciati morire dagli spartani sul monte Taigeto. Si fa fatica a dar forma al pensiero, quasi ci si vergogna a dirlo, ma la nostra presente assuefazione all’idea che muoia una parte della popolazione (di chiunque si tratti) fa pensare a un terribile sacrificio rituale, inscenato e realizzato per ingraziarci il misterioso perdono di una spietata divinità di pietra, per valerci un’ingrata grazia assolutoria.
Difficile non mandare un pensiero cupo e inviperito a chi ha ridotto la sanità italiana nello stato attuale, riducendo i finanziamenti e costringendo il medico alla terribile scelta su chi debba vivere e chi debba morire. La morte non la danno i medici che ti lasciano fuori dalla terapia intensiva. L’ha data a suo tempo la bestialità di una politica cieca, indifferente, demagogica e ignorante.
Se usciremo dalla catastrofe sanitaria, ci aspetterà quella economica, lo si sa. Chi ha letto le facili ma logiche profezie storiche di Yuval Noah Harari pensava si trattasse di un panorama fantascientifico. Tutta la nostra scienza, tutta la nostra intelligenza, tutto il nostro progresso non sono bastati a evitarci una potenziale catastrofe globale. Nessun algoritmo lo aveva previsto, e se ci salveremo non sarà un algoritmo ad aiutarci. Il coronavirus è venuto a ricordarcelo.
Almeno, cerchiamo di restare umani.

Dario Calimani, Università di Venezia

(17 marzo 2020)