Una prova difficile
Sono ben pesanti le settimane che stiamo attraversando. Dalla minaccia vaga e lontana siamo passati rapidamente al dramma. In questi giorni stiamo scivolando nella tragedia.
Nell’antichità classica, nel mondo del Tanach, nel Medioevo cristiano le epidemie, le pestilenze, le morti di massa sono invariabilmente viste come castigo divino. Per la nostra tradizione, basta ricordare le motivazioni date alla tzara’at nelle parashot di Tazrià e Metzorà, nonché i relativi commenti rabbinici. Certo la scienza, la mentalità e la sensibilità odierne ci portano verso altre spiegazioni, eppure l’angoscia per la catastrofe in corso tende ad alimentare un nostro interiore senso di colpa e una nascosta inquietudine della dannazione: segno di un Medioevo prossimo venturo o addirittura di un Medioevo segretamente presente?
Anche se dall’alto della nostra civiltà tecnologica ci rifiutiamo di sposare la visione insieme antropocentrica e teocentrica della catastrofe punitiva, è comunque coinvolgente, e forse persino utile a conoscerci meglio, chiedersi oggi quali motivazioni profonde animavano quelle interpretazioni del passato. Certo il timore reverenziale del divino, il senso di impotenza e il vuoto angosciato di fronte a una tragedia in espansione, il bisogno di trovare una ragione anche oscura e impenetrabile a un male generale progressivo e inspiegabile, il radicato senso del peccato e l’idea che gli uomini ne siano pervicaci portatori; comunque la diffusa concezione della potenza/presenza di Dio – continua ravvicinata ineludibile – nella natura e nel mondo dell’uomo.
Ma, continuiamo a chiederci, queste motivazioni e questo sentire arcaico appartengono davvero solo al passato? Non siamo forse anche noi italiani europei occidentali del XXI secolo a sentirci nudi e impotenti di fronte al fantasma di una nuova epidemia inarrestabile? Il morbo, il contagio, la morte serpeggiante e crescente evocano in noi paure ancestrali, distruggono certezze, ci portano a interrogarci sul senso del nostro ostinato e tecnologico andare avanti senza meta. Ci indirizzano infine verso questioni etiche e ci spingono anche oggi a cercare risposte sul piano del bene e del male, per un evento che apparentemente potrebbe esaurirsi in ambito naturalistico/scientifico/sociale.
E allora potremmo forse concludere con spirito positivo – senza cedere al pessimismo distruttivo e senza bisogno di rifugiarci anche ai nostri giorni nella schematica spiegazione della peste come castigo di Dio – che la dilagante epidemia di Coronavirus è una terribile prova, non certo di natura metafisica ma certo anche di carattere etico e sociale, che ci è capitata improvvisa tra capo e collo e forse abbiamo in parte accelerato, e che dobbiamo avere la forza morale sociale politica di superare. Accortezza, spirito di resistenza, solidarietà collettiva sono le armi per riuscirci. Solidarietà collettiva, appunto. Perché in fondo questa prova è anche un’occasione indifferibile per ripensare e mettere in discussione il nostro modello di sviluppo improntato all’egoismo sociale più smaccato.
Il mondo ebraico italiano sta provando ad affrontarla e dimostra di essere una piccola grande comunità, di possedere questa forza, riunendosi idealmente (nell’isolamento obbligato di questi giorni che hanno chiuso Sinagoghe, luoghi di incontro, uffici) attorno ai suoi valori di coesione, studio, tradizione. Una ricetta per non perdere identità e coraggio.
David Sorani
(17 marzo 2020)