Il contagio della sudditanza

claudio vercelliPensare che una pandemia possa essere risolta dalla sola «comunità scientifica» (un insieme di individui ma – anche e soprattutto – di risorse, di competenze e di relazioni continuative, spesso con idee e posizioni tra di loro molto differenti; si sta insieme e si “produce” non malgrado ma grazie al pluralismo conflittuale delle opinioni), nel mentre la medesima chiede ai decisori (evidentemente non solo i politici, che sono comunque adesso in prima linea) delle chiare linee guida amministrative e di indirizzo, è come pensare di fare politica delegando ai soli «tecnici» la soluzione di una infinità di problemi che richiedono senz’altro competenze ma anche e soprattutto responsabilità. Le ultime non si delegano, semmai si assumono. È al medesimo tempo una manifestazione di falsa razionalità e di incoscienza civile il ragionare diversamente. Comunque la si voglia vedere, si traduce in un atto di defezione. Ciò che oggi emerge, con dirompenza, come bisogno reale, è quanto negli anni trascorsi è invece stato fatto oggetto di ripetuto sbeffeggiamento: non solo la competenza ben temperata ma anche la mediazione istituzionale e politica. Le «democrazie dirette» (quelle condominiali) sono la falsificazione della realtà. La ricerca, oggi richiamata da tutti quasi come una sorta di divinità dalle cui labbra si pende, non è mai un processo orizzontale bensì verticale. Sarebbe altrimenti stregoneria, non altro. Soprattutto, richiede energie, tempo e forze, di ogni genere e tipo. Provare, sbagliare, riprovare, cercare, verificare, confrontarsi. Tra errori e rettifiche. Una vita intera, in buona sostanza: quella di chi ci lavora. Non si testa con i plebisciti “popolari” bensì con i lunghi effetti di ritorno dei percorsi applicativi. Di contro all’insopportabile retorica che contrappone il «popolo» ai «professoroni», fingendo che il primo sia lo spontaneo titolare di un’antica sapienza di cui i secondi, nel chiuso delle loro segrete stanze, poco o nulla conoscerebbero. Ma servono anche élite dirigenti che sappiano tradurre quelle competenze e quelle azioni in scelte collettive. Gruppi dirigenti che siano autorevoli. Non a caso lo scellerato elogio del livellamento di tutto – non solo dei processi politici ma anche delle stesse società, nel nome di deità astratte (ad esempio, i “mercati”, citati a sproposito come Sibille cumane) che da sé avrebbero concorso autonomamente ad aggiustare, con incantevoli magie, ogni cosa – ha invece contribuito a renderci più fragili, maggiormente deboli dinanzi alla difficile prova che stiamo affrontando. Si tratta di una lunga storia di falsificazioni. La racconteremo ancora in altro momento, meno ansiogeno di quello attuale. Quel che adesso dobbiamo sapere è che o se ne esce insieme oppure si rischia di non poterne uscire, piaccia o meno. Poiché gli scenari che potrebbero configurarsi sono quelli a spirale. In Italia, con tutti i limiti del caso, ne stiamo prendendo faticosamente coscienza. Con grandi difficoltà, beninteso. Le immagini delle altre capitali europee, sono invece sconfortanti. Sapendo di come le loro epidemie a scarto ritardato potrebbero tornarci indietro, il giorno in cui noi avessimo finalmente fatto un primo passo per andare oltre l’emergenza immediata. Classi dirigenti impaurite e, soprattutto, disorientate, tali poiché in deficit di capacità decisionali, animate quindi da una visione tanto miope quanto cinica, contribuiscono in tale modo a mettere un altro chiodo sulla bara non solo della periclitante Unione europea ma anche di un futuro per tutti noi (ancora) accettabile. Sarà bene non avere memoria corta, al riguardo, quando si dovrà pur scegliere qualcosa o qualcuno. Nei giorni scorsi Silvio Garattini, classe 1928, conosciuto come decano della ricerca farmacologica, animato da una lucidità invidiabile, sempre pacato ma realista, alla domanda postagli da un intervistatore sulla necessità di fare ricerca per trovare una risposta al collo di bottiglia nel quale le società europee si stanno cacciando per via del coronavirus, ha sottolineato che in un paese come l’Italia è oramai impossibile parlare di “ricerca” in quanto sistema integrato, poiché in tutti i campi (non solo quello medico e farmacologico) è quest’ultima ad avere subito i tagli più radicali, quanto meno in termini proporzionali, nel nome di equilibri di bilancio, in omaggio a vincoli finanziari e a cos’altro (a partire dal transfert di eventuali risorse nel magico “privato”, inteso come circuito di interessi corporati, di cui alcune leadership hanno dato proprio in questi giorni un chiaro esempio). Tra le altre cose, ci si è sentiti ripetutamente dire che “non c’è bisogno di fare ricerca”. Con il corredo di beffe verso gli specialismi e la destrutturazione sia degli inquadramenti professionali che delle retribuzioni, senza i quali non ci può essere alcuna ricerca reale effettiva, tale poiché capace di ricadere positivamente, nel lungo termine, sulla collettività medesima. È infatti parte della ricerca non solo ciò che si va facendo oggetto di studio ma anche i modi (tempi, risorse, qualità della prestazione, sistemi di scambio e cooperazione) in cui tale lavoro si compie. Ossia, la sua considerazione sociale. Se uno studioso non è pagato, dovrà cercarsi un altro lavoro. Con buona pace della ricerca medesima. Il tutto in società tendenzialmente qualunquistiche e sempre più spesso chiuse in se stesse, animate da minoranze rumorose e rancorose, all’ossessiva ricerca di quella miserevole visibilità che accompagna i piccoli narcisi dei quali sono composte. Il principio ragionevole e razionale di prevenzione condivisa – che è cosa diversa dalla paurosa «società del rischio» raccontata dai sociologi, quella in cui tutti, avendo timore di qualcosa, si affidano quasi scaramanticamente alle moderne formule di sortilegio che sono le assicurazioni private, quand’esse si sostituiscono ad un solido sistema di garanzie pubbliche – è venuto progressivamente ad attenuarsi. Non solo come pratica sistematica e sistemica delle istituzioni ma innanzitutto come forma mentale e culturale, almeno laddove la solidarietà e la reciprocità sono parte integrante della soluzione dei problemi. Non siamo società abituate al senso del limite e a quella capacità di autocorrezione che sono invece due virtù fondamentali di ciò che chiamiamo resilienza. Arriviamo quindi alla prima grande prova – almeno per noi europei – da dopo la Seconda guerra mondiale, del tutto disabituati e non attrezzati a fare fronte alle emergenze che si stanno sommando: sanitaria, economica ma anche sociale e civile. Si è disinvestito su tutto, nel nome di una velocità e di una mutevolezza (quelle derivanti da un’economia della conoscenza e dell’informazione) che avrebbero compensato i bisogni e le occorrenze, di una circolazione che sarebbe stata in grado di compensare, per un principio di virtuosità intrinseco a sé, le asimmetrie di ogni genere, a partire proprio da quelle di opportunità (e di autotutela, in questo caso della salute). La scelta – ideologica – di professare la diseguaglianza come falsa forma di merito (nei fatti ne è invece l’esatto opposto), arricchisce certuni mentre impoverisce le collettività. Il nesso tra salute pubblica ed economia globale pare che emerga come indissolubile dalla gravissima crisi che stiamo attraversando. Poiché siamo entrati in una doppia emergenza, che prevedibilmente durerà a lungo, portando a profonde ristrutturazioni sociali. Vedremo quali, ma ci permettiamo di essere assai dubbiosi sui loro possibili esiti. Il rischio di un percorso a spirale è evidente. Laddove l’incoscienza collettiva si alimenta, in un gioco di irrisolte specularità, del cinismo di una parte delle élite. Scelte, nel caso politico, da quegli stessi cittadini che si stanno progressivamente candidando a tornare ad essere sudditi.

Claudio Vercelli

(22 marzo 2020)