Salvarsi all’ombra di Kafka

Schermata 2020-03-22 alle 10.27.49Se qualcuno volesse immergersi nel clima d’agonia della simbiosi ebraico-tedesca degli anni Trenta non dovrà far altro che tuffarsi nella corrispondenza tra questi due giganti del pensiero ebraico. Il primo è Walter Benjamin, il poliedrico intellettuale sospeso tra Berlino e Parigi, ma anche tra Ibiza e Sanremo, le cui contraddizioni ideologiche ed esistenziali sono la foto di tutte le inquietudini dell’ultima generazione dei ‘tedeschi-ebrei’ alla disperata ricerca del senso di quel trattino ormai roso dal dubbio di legittimità. Morirà suicida in una camera d’albergo di Port Bou, al confine tra Francia e Spagna nel settembre del 1940, braccato più dai propri incubi che dalla pur ottusa burocrazia o dalla feroce Gestapo. Il secondo gigante è il massimo studioso di qabbalà del XX secolo, Gershom Scholem, che nel 1923 aveva lasciato la Germania per trasferirsi a Gerusalemme, convinto che non fosse più possibile una vita autenticamente ebraica in Germania. Gli eventi successivi gli diedero ragione, ma l’amicizia intensa e complessa (come i loro caraatteri) tra i due studiosi è un caleidoscopio di tutti i parossismi, le aspettative, le idiosincrasie e sintonie e antipatie di quell’ultimo squarcio di fermenti ebraico-tedeschi. Chi si avventuri in queste 128 lettere, annotate in parte da Scholem stesso e in parte dal curatore Saverio Campanini, si ritroverà in mezzo a una costellazione di nomi che sono, senza dubbi storiografici, il meglio della diaspora europea alla vigilia della seconda guerra mondiale. Incontrerà lo studioso di Spinoza e Maimonide Leo Strauss, che Scholem avrebbe visto come docente di filosofia della religione all’università ebraica di Gerusalemme, se non fosse stato troppo ‘ateo’; inciamperà, quasi letteralmente, nell’ubiquo Ernst Bloch, così vicino e così lontano da Benjamin, con il quale condivideva sia la passione per la politica sia l’ossessione per la teologia; starà gomito a gomito con il sionista-socialista Martin Buber, uno degli ultimi a tenere alta la bandiera dell’ebraismo sul suolo tedesco prima della catastrofe; sentirà gli umori e i rumori di altri grandi spiriti ebraici in fuga dall’‘esilio’: da Hugo Bergmann a Lev Sestov, da Adorno a Horkheimer, dalla Arendt fino a quel fantasma di se stessa che fu la poetessa Else Lasker-Schüler…
Il carteggio copre ‘solo’ otto anni, dal 1932 al 1940, ma è proprio quella manciata di anni in cui tutto cambia, in cui si consuma la fine, in cui chiude quel laboratorio straordinariamente produttivo che aveva aperto ufficialmente i battenti a Berlino un secolo e mezzo prima, con l’haskalà di Mendelssohn. Su tutto, ma soprattutto sui rivi d’inchiostro che portano ossigeno nella vita di questi due amici – le cui affinità elettive sono palpabili e oggetto di continua auto-analisi – aleggia lo spirito inqueto e inquietante di Franz Kafka, le sue storie enigmatiche (esposte a rischiose letture teologiche), la sua attesa senza speranza di un messia che, beckettianamente, non è venuto e manda a dire che non verrà. In queste pagine Kafka è ora un nume tutelare, degno del culto dei falliti, ora un talismano contro lo stesso fallimento nella vita quotidiana. “Niente è più memorabile dell’ardore con il quale Kafka ha sottolineato il proprio fallimento” aveva scritto Henning Ritter, secondo il quale ritraendo lo scrittore praghese in realtà Benjamin si auto-ritraesse.
Per il resto, è soprattutto del quotidiano che Scholem e Benjamin discutono, non solo di principi metafisici, di derive marxiste o di esegesi kafkiane. Si (pre)occupano più spesso di lettere che non arrivano, di estratti e articoli da collezionare, di collaborazioni editoriali che non decollano e non portano denaro. A prevalere è come l’ansia di mettere al sicuro ogni frammento di parole e di pensieri in un’ideale archivio gerosolimitano, di cui Scholem funge da custode unico e geloso. La costante crisi finanziaria di cui Benjamin soffre è quasi un segno di elezione capovolta: il denaro che non c’è o che evapora troppo presto, lasciandolo senza una casa e senza una patria che non sia la sua scrittura. L’esilio dall’esilio benjaminiano ha molti nomi, ma è fatto anche di un bisogno di salvarsi come scrittore, come critico, come intellettuale. E Scholem questo fa: gli offre dignità, gli garantisce memoria e gli fa da sponda affinché l’amico non perda il suo ‘orientamento’, sebbene spesso non ne condivida i percorsi o le scelte pratiche.
Ottimamente ha fatto Saverio Campanini, il maggior esperto di Scholem oggi a livello mondiale nonché storico-filologo ineccepibile di quell’amicizia, a porre questa nuova edizione del carteggio sotto le insegne simboliche dell’archivio e della camera oscura, dove silenzio e buio sono necessari perché emergano profili così complessi, e perché nel micro dei dettagli si rifranga il tutto, seppur in frantumi, di un’epoca. La vecchia edizione Einaudi, dell’87, portava il titolo assai più prosaico “Teologia e utopia”; ora invece abbiamo una doppia citazione interna, che allude alla mania collezionistica di entrambi ma anche alla necessaria elaborazione del ‘negativo’ che ogni vita registra. Incentrato com’è sulle censure (quelle naziste) e sulle auto-censure (necessarie a volte per la salvazione della dignità) nonché sui plagi e sui mutui prestiti più o meno volontari, e spesso inconsci, il saggio di Campanini intitolato “Ombre cinesi” si legge come un libro nel libro. Se è vero che il messia verrà quando tutti citeranno con precisione le fonti a cui attingono, quel giorno nessuno avrà più meriti di Saverio Campanini la cui meticolosa ricerca di chi ha detto cosa, in questo intreccio labirintico di testi e contesti, lascia senza fiato. Kavod, onore allo studioso che ha ripescato nella sua integrità dall’archivio e dalla camera oscura del sofferto sodalizio Benjamin-Scholem questo documento inestimabile del Novecento ebraico.

Massimo Giuliani, Pagine Ebraiche marzo 2020

(22 marzo 2020)