La peste nel Ghetto di Roma del 1656
TRA VECCHIE E NUOVE EPIDEMIE: LA STORIA DELLA PESTE NEL GHETTO DI ROMA DEL 1656
La storia che qui si racconta ci riporta a tempi drammatici nei quali le difese contro le malattie erano quasi nulle e le epidemie mietevano vittime. Il confronto con oggi è interessante per tanti motivi, per vedere le differenze (soprattutto, e per fortuna , i pericoli di allora rispetto a quelli di oggi) ma anche le analogie come l’organizzazione pubblica e le misure di isolamento. L’aspetto ebraico è particolarmente interessante, per il rapporto con le autorità esterne, per l’organizzazione interna, per il sistema di solidarietà nei confronti dei più deboli subito scattato.
LA PESTE NEL GHETTO DI ROMA DEL 1656
Nel racconto di rav Yaacov Zahalon
Yaacov Zahalon (Roma 1630, Ferrara 1693), romano di famiglia di origine spagnola, laureato in medicina e rabbino, dal 1680 rabbino a Ferrara, fu autore di opere di medicina, responsi rabbinici, poesie; sua è una famosa “preghiera del medico”. Nel 1656 arrivò da Napoli a Roma una micidiale epidemia di peste che colpì duramente anche il ghetto. Le cifre della mortalità non sono precise; su centomila abitanti a Roma ne morirono almeno 14.000; nel ghetto, abitato da 4100 persone, ne morirono 800. Su quello che successe nel ghetto abbiamo questa testimonianza personale di rav Zahalon, scritta in ebraico, stampata nel suo libro di medicina Otzar Chaim (Venezia 1683, costruito tutto sotto forma di domanda e risposta), a pag. 21 a-b. Il ghetto fu completamente isolato, con un suo lazzaretto, prospiciente a quello pubblico che stava nell’isola tiberina. Il brano è noto ed è stato pubblicato anche parzialmente in traduzione inglese. Forse questa è la prima traduzione in italiano. In corsivo le parole italiane (in caratteri ebraici) che compaiono nel testo ebraico.
Domanda: Come fu il fatto della peste che capitò a Roma nell’anno 5516, 1656 giugno secondo il conto civile, e in particolare cosa avvenne dentro al Ghetto alla fine del 5516 a Tamuz e all’inizio del 5517.
Risposta. Nell’anno 5516 dalla creazione, 1656 secondo il conto civile nel mese diLuglio cominciò all’inizio prima della peste la malattia chiamata morbillo tra i piccoli e la maggior parte ne morivano, e dopo di ciò venne la pese, e i grandi cominciarono ad ammalarsi di febbre e con macchie nella pelle chiamate petecchie e in capo a tre giorni morivano. La peste cominciò per tre mesi tra i non ebrei e dopo si diffuse tra gli ebrei e quindi finì e guarirono prima gli ebrei dei non ebrei e la peste durò nel ghettonove mesi e allora morirono tra piccoli e grandi circa 800; allora fu proibito agli ebrei di andare fuori dal ghetto in giro per la città come era loro uso e vennero due cardinali dentro al ghetto per preparare un luogo adatto per farci un lazzaretto per metterci tutti i malati per separarli dagli altri perché la peste non si diffondesse; e comandarono che il luogo a ciò deputato fossero le case nella strada del fiume vicino alla porta del ghetto detta porta del ponte, e che fossero chiusi là fino alla loro guarigione e nominarono un autorità chiamato monsignore Negroni che veniva due volte al giorno per verificare le necessità della collettività e per ammonire tutti che non si mescolassero gli uni con gli altri in grande assemblea. Piantarono un grande palo nella strada vicina alla porta grande per impiccarci con la corda chi avesse trasgredito i loro ordini. Nominarono anche un medico non ebreo che rimanesse rinchiuso in ghetto con gli ebrei per vedere chi avesse la malattia della peste e portarlo al lazzaretto suddetto. Là insieme ai malati che vi venivano mandati c’era il medico Shemuel Gabbai, che il Signore lo protegga, con suo padre cerusico che dopo qualche giorno morì, mentre lui ne uscì in pace. Tutte le case [del ghetto] furono divise in tre parti e in ogni parte fu nominato un medico ebreo; uno il rabbino medico Chananià di Modigliano, di benedetta memoria; nella seconda parte il medico Gavriel dell’Ariccia, di benedetta memoria, che morirono in quel periodo; nella terza parte l’incaricato era il medico rabbino Izchaq [dovrebbe essere Yaacov, ndt] Zahalon, che il Signore lo protegga. Benedetto sia il Signore che ha usato misericordia con me e mi ha fatto sopravvivere e mi ha salvato perché facessi la sua volontà; “alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore, celebrate il Signore che è buono perché la sua misericordia è eterna”.
In quel periodo mi capitò che un malato di nome Shabatai Cohèn, di benedetta memoria, si ammalò di febbre e aveva una specie di rigonfiamento tra le cosce e io pensai che non fosse un bubbone, e dopo che morì dissi che non era morto di peste, mentre il medico non ebreo diceva che aveva avuto la peste perché aveva visto quel rigonfiamento tra le cosce e io dicevo che era un ernia viscerale e non un bubbone e ci fu una grande divergenza e tutto questo per isolare l’abitazione come era uso per chi moriva per la malattia della peste; e cosa fecero? Portarono il cadavere dai medici non ebrei e lo incisero in quel posto e videro che era come avevo detto io e non era un bubbone come aveva detto il medico non ebreo e mi salvai, e benedetto sia Colui che riscatta e salva.
E così era l’uso: il medico ebreo andava a visitare il malato e se vi vedeva i segni della peste come il carbuncolo nero o il bubbone tra le cosce con febbre nei casi maligni e in particolare se aveva la lingua bianca come la neve allora lo diceva al medico non ebreo che venisse a vederlo e ordinava che portassero la lettiga al posto suddetto dellazzaretto in mano del medico Shemuel Gabbai; altrimenti lo lasciavano a casa dove sarebbe guarito. Quando il medico andava a visitare i malati prendeva in mano una grande torcia accesa di pece sia di giorno che di notte per purificare l’aria in modo che il medico non rischiasse quando entrava nella casa del malato dall’aria della casa, e in bocca aveva la teriaca; e fu per me di grande giovamento, con l’aiuto del Signore, che feci nel mio braccio sinistro un cauterio da cui uscì del sangue e umidità molto cattiva. Nei 9 mesi che la malattia durò morirono tra piccoli e grandi circa 800 persone; e allora morì il colto giovane esperto nell’arte della chirurgia Izchaq Zahalon figlio del fratello di mio padre, che la pace sia su di lui. Allora le persone della comunità santa erano in tutto 4100, che il Signore le protegga.
I morti li facevano scendere nel fiume in una piccola imbarcazione fuori città nel luogo chiamata Pian de’ Divisori [?]. Per le necessità della comunità uscivano dal ghetto 15 persone scelte che stavano fuori dal ghetto per rifornire e cercare le necessità della comunità di soldi e cibo per ogni cosa e andavano alla Scola di Quattro Capi e fu per misericordia del Signore che nessuno di loro morì in quel tempo e rimasero fuori tutti i giorni che continuò la peste e dopo quando rientrarono dai loro fratelli dentro al ghettoistituirono una confraternita e la chiamarono chevrat chaym wechesed (confraternita di vita e misericordia); usano riunirsi a studiare Torà ogni mercoledì a casa di Yehudà …, che il Signore lo protegga, e a ricordo di questo miracolo ogni anno nel sabato di Chanukkà si riuniscono nella scola dei Quattro Capi e il loro rabbino predica in pubblico e ricorda il fatto della loro salvezza dalla peste; e ancora si offrirono di fare 50 cuscini per i letti ogni anno per darli poveri e estraggono a sorte tra i poveri e a loro si sono aggiunti altri ricchi per aiutarli nelle spese necessarie.
Tutto il ghetto lo divisero in 17 settori e per ogni settore un ebreo per andare in giro e fornire alimenti a coloro che abitavano nel suo settore; la comunità dava ai poveri e a chi ne aveva bisogno e erano 2624; a chi aveva da 18 anni in su gli davano 7 baiocchi e mezzo ogni giorno e alle donne e i piccoli 5 baiocchi al giorno e ogni settimana gli servivano 1036 scudi, 9 giuli e 9 baiocchi. Pertanto quelli che stavano fuori dal ghetto gli compravano pane, vino, olio e frutta e le facevano entrare nella porta del ghetto e c’erano 17 incaricati per i 17 settori del ghetto che prendevano gli alimenti nella misura adatta alla loro parte e la distribuivano a quelli che stavano nel loro settore delimitato; i ricchi compravano da loro con i loro soldi in un momento fissato del giorno come aveva ordinato il monsignore suddetto e quando usciva un certo segnale tutti subito tornavano a casa.
E poiché la gente non poteva andare nelle Sinagoghe pertanto nel sabato parashà Toledot, 2 di kiskev 5717 dalla creazione io Yaaqov Zahalon feci una derashà nella via dei Catalani in un angolo della strada nella casa di David Gattegni che il Signore lo protegga dalla finestra di casa sua e la comunità stava in piedi nella strada per sentire la derashà. Un’altra volta feci la derashà nella via Toscani e mi fermai a predicare dalla finestra della casa di Yehudà Gattegni e la gente stava sotto per strada ad ascoltare la predica e così in altre strade i rabbini predicavano parole di Torà dalla finestra di casa loro perché non era permesso andare tutto il giorno per strada tranne che ai medici, ma in un’ora stabilita tutti avevano il permesso di fare le loro necessità per i loro cibo ma di notte nessuno usciva di casa; e c’era chi girava per la città e se trovavano qualcuno lo mettevano in reclusione fissa dentro al ghetto.
Dopo 9 mesi il Signore benedetto si ricordò del suo popolo, per merito dei loro padri, e la peste finì, le persone sopravvissero e le porte si riaprirono e gli ebrei tornarono nelle Sinagoghe a pregare come prima e per dare ringraziamento e lode al Signore ”che per la misericordia del Signore non finimmo, perché le la sua misericordia non era finita”.
E per buon segno per Israele entrò nel lazzaretto una donna incinta, di nome Gioia di …, di benedetta memoria, moglie di Izchaq Mondolfo haLevi, di benedetta memoria, che era affetta da peste e là partorì un figlio maschio vitale e lo allattò con tutta la malattia che lei aveva e il nato è vivo fino ad oggi e si chiama Efraim Levi, che il Signore lo protegga.
Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma
(L’articolo è stato pubblicato su www.shalom.it, il magazine della Comunità ebraica di Roma)
(23 marzo 2020)