“Spiritualità e pratica sportiva,
mondi che devono dialogare”

Spiritualità ebraica e pratica sportiva: due mondi visti talvolta in contrasto ma che in realtà possono incontrarsi e crescere insieme (per il momento, in queste settimane di emergenza sanitaria, almeno nella teoria). È quanto sostiene la Yeshiva University, punto di riferimento dell’ebraismo statunitense che ha realizzato, con il contributo di alcuni esperti, un breve approfondimento denominato “Jews, Sports and Society”. L’introduzione è esplicita: “Dedizione. Innumerevoli ore di impegno. Sacrificio. Veder sorgere delle avversità. Massimizzare i propri talenti naturali. Una vita religiosamente declinata e lo sforzo proprio dello sport hanno molto in comune, anche se spesso entrano in conflitto”. 
Joe Bednarsh, direttore del comparto sportivo dell’Università, ricorda che dal punto di vista storico lo sport è sempre stato veicolo di integrazione nelle diverse società in cui gli ebrei si sono trovati a vivere. Anche un modo, quindi, “per prevenire l’antisemitismo”. Oggi però i vantaggi vanno ben oltre questo specifico aspetto. “Abbiamo prove empiriche – scrive Bednarsh – che gli studenti atleti hanno rendimenti più elevati rispetto a chi non fa sport. I numeri della Yeshiva University riflettono questo trend”. E questo perché, si legge, “lo sport insegna lezioni che non possono essere apprese in classe, come ad esempio la sfida di essere un leader, gestire il tempo, definire le priorità”. Benefici evidenti anche nella pratica agonistica, con la squadra di pallacanestro che in particolare si è distinta nei tornei nazionali. “E questo – riflette Bednarsh – nonostante i limiti imposti dalla religione, il nostro calendario scolastico particolare e la tante altre sfide che ci troviamo ad affrontare. Siamo legati in modo indissolubile all’ebraismo e abbracciamo la dicotomia sia di essere ‘simili’ che ‘diversi’ rispetto a chi ebreo non è”. 
Il rabbino Shalom Carmy riconosce l’assoluta importanza dello sport ricordando l’esempio di un Maestro di fama internazionale, rav Aharon Lichtenstein. “Per quelli come noi che hanno studiato Talmud assieme a rav Lichtenstein c’era l’opportunità, tra i due semestri, di fare sport in sua compagnia: football a gennaio, pallacanestro a giugno. Chi l’ha conosciuto non sarà sorpreso di apprendere che in quelle circostanze il rav giocava con la stessa identica passione che mostrava nel Beit Midrash. Una volta – scrive rav Carmy – ci disse che vedere giovani studenti di Torah giocare in modo sconsiderato gli causò un forte sgomento”. Il rav cita le parole della moglie Tovah, pronunciate in occasione della scomparsa del marito: “Tendo a pensare – il suo pensiero – che da giovane praticasse sport non solo perché gli piaceva lo sforzo fisico del basket e quello che chiamava ‘il valore morale’ del lavoro di squadra, ma anche perché il gioco gli permetteva di far parte di una squadra. Gli ha dato l’opportunità di appartenere, di inserirsi”.
Danielle Carr, insegnante di tennis della squadra femminile, racconta il suo incontro con il mondo ebraico. “Prima del mio incarico alla Yeshiva University – scrive – avevo avuta assai poca interazione con la cultura e la religione ebraica e ancora meno conoscenza storica dell’ebraismo. Mi sono però ricordata di un seminario del mio percorso di studi che parlava del pregiudizio dell’ebreo ‘non atletico’, più attento a fatti, cifre, libri e studi biblici rispetto a muscoli e pratica sportiva”. Due aspetti però non in contraddizione, come la stessa Carr ha sperimentato nei suoi anni di lavoro in questa sede. “Israele compete ai Giochi olimpici e rappresenta entrambi i sessi con due nazionali di calcio. Come è normale che sia, gli ebrei fanno sport a prescindere dal Paese in cui competono. È stata questa esperienza ad aiutarmi a capirlo”. Stimolanti le sue riflessioni sulla non semplice sfida di far convivere un percorso formativo all’altezza con i molti ostacoli della quotidianità e con il rispetto della “tzniut”, la modestia. Vincere questi ostacoli, ci ricorda, è però possibile.

(23 marzo 2020)