La sinistra, gli ebrei, Israele
Kohelet 1.18: molta sapienza, molto affanno, chi accresce il sapere, aumenta il dolore; per questa ragione, non vi è peggior mestiere che dire agli altri ciò che non vogliono sentire. Questa impervio percorso – dire la verità dopo uno studio approfondito – è stato ottimamente intrapreso da Alessandra Tarquini, nel volume La sinistra italiana e gli ebrei. Socialismo, sionismo e antisemitismo dal 1892 al 1992, il Mulino, 2019.
Intendiamoci, ci sono moltissimi libri e articoli sui rapporti della sinistra con gli ebrei, e quindi: a) Tarquini dimostra coraggio ad occuparsene (ma si ripaga da sola con la sua qualità), b) “moltissimi” è un termine su cui si dovrebbe riflettere, ammesso che se ne sia capaci.
La ricchezza dei fatti riportati, oggetto di ricerche dell’autrice così come di una potente bibliografia (potente anche per via di alcune fonti mediocri che costei, giustamente, non menziona) costituisce un valido ausilio per gli studiosi e, si spera, per gli studenti.
Leggiamo, per esempio: “socialista, dove militava una componente significativa del proletariato ebraico nel 1901 Lombroso non poté essere più esplicito: io son sionista, perché sono Ebreo e come Ebreo non so se è possibile non esser sionista. Io credo alla rigenerazione della nazione ebraica, della nostra forza nazionale. E ciò non può avvenire che sul suolo da cui si è propagata la luce sul mondo intero. Il Dr. Nordau e il Dr. Herzl sono miei amici personali. Io li considero non solo come persone oneste, ma come capi degni e savi, che riflettono ad ogni passo che fanno. Quand’affermano che è possibile condurre il nostro popolo nella nostra patria enunciano una realtà non una fantasia”.
Troviamo il conflitto fra i sionisti e il Bund, il partito socialista ebraico della Lituania, della Polonia e della Russia. Nel 1903, l’inviato dell’«Avanti!» al sesto congresso sionista ricordò che il Bund considerava il sionismo un nemico del proletariato. Non è banale dirlo, vista che è possibile scrivere sul Bund anche dei trattati senza menzionare oppure menzionando di rado la parola “sionismo”.
L’autrice ci consegna la memoria dell’antisemitismo della sinistra, nel ricorso a stereotipi anti ebraici, dimostrando che non esiste una sua ontologia che la esima da tale pregiudizio. La Tarquini riferisce, fra altro, che su “Rinascita”, nel 1948, si descrive Auschwitz senza ricorrere mai al termine “ebrei”. Riferisce anche che “basato sull’esperienza dell’autore, internato nel campo di Monowitz, un satellite di Auschwitz, Se questo è un uomo (di Primo Levi) era stato rifiutato dai consulenti della casa editrice Einaudi, Natalia Ginzburg e Cesare Pavese, convinti che il tema non interessasse perché inflazionato dai numerosi volumi usciti e «inadeguato al frizzante clima di allegria di una nazione inebriata dalla fine di un incubo”. Insomma, la sinistra, per lunghi anni, discorre dello sterminio operato dal nazismo realizzando il capolavoro di non menzionare gli ebrei.
L’autrice ricorda, fra altro, che nel 1952, l’Avanti ritenne di spiegare che “il Sionismo è divenuto un movimento di classe: le organizzazioni sioniste sono finanziate dai grandi banchieri, dai grandi capitalisti ebrei e servono i loro interessi, i quali sono uguali a quelli di tutti gli altri capitalisti del mondo intero”.
Apprendiamo che “Nel 1946 Natalia Ginzburg pubblicò sul quotidiano del Pci ‘Il figlio dell’uomo’, un articolo in cui descrisse l’impossibilità di tornare alla normalità, di riprendersi da una minaccia incombente, di emanciparsi dalla paura della violenza. Malgrado la persecuzione subita in quanto ebrea e antifascista, e la vicenda di suo marito Leone, torturato a morte in carcere a Roma nel 1944, la Ginzburg eliminò qualsiasi riferimento all’antisemitismo. Inaugurando un filone che avrebbe avuto grande fortuna, non menzionò i suoi correligionari e descrisse la più grande carneficina della storia del Novecento come un fatto che riguardava l’umanità intera”.
Emilio Sereni, riferisce la Tarquini, scriveva: “Oggi, come spesso è avvenuto nella storia, la causa dell’ebraismo è più che mai legata con la causa mondiale della difesa della democrazia e della pace. Nella lotta contro ogni forma ed ogni manifestazione di imperialismo, nella lotta per lo sviluppo della democrazia in Italia e nel mondo, che il partito comunista conduce, io spero di poter dare un valido, se pur modesto contributo, alla causa per cui Enzo è caduto”. Se, come scriveva Emilio Sereni, le ragioni dell’ebraismo coincidevano con quelle dell’umanità, gli ebrei non avrebbero dovuto essere trattati come perseguitati speciali”.
L’opera mette in luce come sia sul versante politico che su quello letterario e addirittura musicale, si compisse il prodigio di affrontare l’Olocausto senza citare gli ebrei oppure senza approfondire il perché del genocidio. Non solo: Salvatore Quasimodo riuscì nel prodigio di scrivere una poesia intitolata “Auschwitz”, dedicando però agli ebrei delle frasi sferzanti in altra sede, provocando una risposta sdegnata di Dante Lattes su La Rassegna Mensile d’Israel.
A proposito della Scuola di Francoforte e dei suoi epigoni italiani, l’autrice scrive: ” Ovviamente erano tutti convinti che fra il totalitarismo e la democrazia liberale non vi fossero grandi differenze e che la violenza espressa nei paesi occidentali non fosse meno distruttiva di quella vissuta sotto uno Stato dittatoriale”; parlando del passato si evince quanto poco sia è cambiato da allora.
Sorprende la quantità di nomi ebraici nella sinistra più incattivita con Israele, e se tutti hanno pari diritti, ebrei e non ebrei, anche di maltrattare e diffamare Israele, nondimeno la scaturigine del livore non è uguale, perché soltanto negli ebrei vi è il bisogno di allinearsi e farsi accettare, tant’è Sartre affronta in modo diverso il profilo dell’ebreo inautentico e dell’antisemita tout court.
L’autrice riferisce che, quando arriva in Italia lo sceneggiato Holocaust, “Alberto Moravia lo definì un prodotto industriale e come tale incapace di produrre una vera riflessione”; sicuramente aveva veramente riflettuto scrivendo a Benito Mussolini: «Io ebreo non sono se si tiene conto della religione. Sono cattolico fin dalla nascita e ho avuto da mia madre in famiglia educazione cattolica. È vero che mio padre è israelita; ma mia madre è di sangue puro e di religione cattolica, si chiama infatti Teresa De Marsanich ed è la sorella del Vostro sottosegretario alla comunicazione. Per queste ragioni, Duce, io vi chiedo di non essere considerato ebreo e di essere trattato almeno dal punto di vista professionale come non ebreo». Dal libro risulta, ma questa non è una novità, che tanti intellettuali fieramente fascisti (Moravia, però, non lo era) diventano poi fieramente di sinistra ma sempre coerentemente ‘critici’ nei nostri riguardi.
Si apprende, inoltre, che Berlinguer scriveva al capo dell’OLP chiamandolo “Caro compagno Arafat”; nemmeno Eugène Ionesco o Samuel Beckett avrebbero osato tanto. Invece un politologo normale – nulla d’eccezionale- avrebbe forse spiegato che per il Segretario costui era un ribelle antimperialista e, di conseguenza, obiettivamente un comunista.
Il volume finisce con l’evoluzione del PCI in PDS, che porta ad un atteggiamento più aperto, anche perché nel frattempo era crollata l’URSS, provocando qualche gelosia nel PSI. La Tarquini finisce in modo perfetto la sua trattazione: “Utilizzare stereotipi antisemiti, non riconoscere il diritto di una minoranza e il senso di una differenza, non accettare la specificità di chi ci parla, non è necessario né obbligatorio. È solo molto violento”. Mentre scriviamo, non solo la sinistra marxista e quella socialdemocratica non esistono più, ma non vi è in Italia un partito che abbia un’identità chiara. Però le perspicue conclusioni della Tarquini, che dovrebbero valere fino al 1992, valgono ancora oggi. Quelle conclusioni così precise non avrebbe potuto scriverle se l’intero volume non fosse stato, come invece è, l’esito di ragionamenti e di processi importanti, che costituiscono per noi un prezioso strumento per le analisi presenti e future.
Emanuele Calò, giurista