Per un Pesach meno solo
Poiché la Torah ‘non è in cielo’, ed è la Torah a dirlo, non si dà tempo più adatto di questo nostro per mostrarci che è davvero così. Se la Torah è data all’uomo a misura dell’uomo, si tratta ora di mettere in pratica le sue parole.
In occasione della presente emergenza sanitaria, rav Yitzchak Yosef, guida degli ebrei sefarditi di Israele, ha consentito di tenere acceso il cellulare lo scorso Shabbat, per evitare che si mettesse a rischio la vita di persone colpite dal contagio. È il principio del Pikuach nefesh. Rav Yitzchak Yosef ha avuto coraggio, e si è preso una bella responsabilità, con una decisione di peso eccezionale, che mette al riparo gli ebrei che in lui confidano da timori, perplessità e crisi di coscienza. Rav Yosef ha indicato la via.
A giorni sarà Pesach. Un Pesach decisamente strano e particolare per tutto il mondo ebraico isolato in infinite solitudini, cui fanno compagnia soltanto sentimenti di ansia, di preoccupazione, di attesa e, perché no, di paura. La solitudine dei soli e degli anziani. La solitudine insanabile dei più fragili. Per non dire il dolore per la morte di chi già non è sopravvissuto all’epidemia.
Bene, la casheruth di Pesach e la partecipazione a un seder casher non possono certo concedere di appellarsi al principio di Pikuach nefesh per cui si possa chiedere una deroga all’halakhà, eppure l’emergenza – sanitaria e spirituale – merita una considerazione.
Per tutti noi Pesach e il seder sono il ritorno all’ebraismo vissuto nella famiglia riunita. Pesach è, più di ogni altra festività ebraica, il senso della continuità del nostro popolo, delle nostre tradizioni, dei nostri legami familiari. È il ritrovarsi tutti assieme, genitori e figli e nipoti, con gli amici che non hanno possibilità o capacità di organizzarsi un seder. Ci si riunisce tutti per siglare insieme il patto della trasmissione del ricordo, della fedeltà ai principi fondanti del nostro essere ebrei, e il patto che ci lega gli uni agli altri. Non saprei come altro comprendere, altrimenti, il principio di ‘kol Israel arevim ze laze’ (‘ogni ebreo è responsabile per ogni altro ebreo’). Si legge, si racconta, si commenta, si parla, si ride, si banchetta, e ci si osserva anno dopo anno attraversare il tempo, sempre uguali e sempre rinnovati, e sempre più vissuti. Talora, anche troppo vissuti.
Quest’anno, il dono di questo confronto, di questo patto siglato assieme a chi amiamo nei riguardi dell’ebraismo e nei riguardi nostri, l’uno dell’altro, non ci potrà essere. Padri e figli e nipoti saremo tutti separati e lontani. La nostra casherut ne pagherà senza dubbio, in molti casi, lo scotto, data la difficoltà di rifornirci dei prodotti consigliati dalla lista dell’ARI. Qualcuno forse ricorrerà ai fornitori grazie a internet, sempre che la distribuzione funzioni a dovere. Non tutti, però, sapranno farlo o saranno nelle condizioni di farlo. Non credo si verificherà mai un’occasione come questa che meglio si presti a deroghe e a eccezioni. Queste deroghe ed eccezioni (ai prodotti casher certificati e alla distanza) si auspica che l’Assemblea Rabbinica Italiana possa celermente prenderle in considerazione, per permettere all’ebraismo italiano di non sentirsi meno casher che mai, e più isolato che mai, e più solo che mai, in una situazione che più drammatica di così non si riesce a concepire.
Quest’anno, il ‘bechol dor vador’ (in ogni generazione) non avrà il sapore e il senso che ha sempre avuto sinora. Non avremo di fronte a noi alcun’altra generazione nei cui occhi trovare conferma delle nostre parole, delle parole della Haggadah. Attendiamo che chi ci guida nell’halakhà sappia aiutarci indicandoci un percorso che non ci faccia sentire, quest’anno, meno ebrei e più sradicati che mai.
Dario Calimani, Università di Venezia