Musica ai tempi dell’afflizione
C’è un grande, geniale compositore italiano al quale la Guerra e una buona dose di sfortuna hanno usurpato il successo internazionale; trattasi del compositore anconetano Berto Boccosi.
Capitano di fanteria nel 340esimo Battaglione GAF durante la Guerra, catturato dagli Alleati a seguito della disfatta italiana di El Alamein durante la Campagna d’Africa, nel 1942 fu internato nei Campi di prigionia militare francese XVIII Gabès (Tunisia coloniale) e VI Saïda (Algeria coloniale).
A Gabès scrisse la Rapsodia op.16 per pianoforte, subtitolata “Di sera ne l’Oasi di Gabes – poemetto per pianoforte”; nel 1948 riscrisse la Rapsodia su un altro quaderno – ritoccandone leggermente alcuni passaggi – mentre con una gomma a colori provò invano a cancellare sul quaderno originale ogni riferimento al luogo di creazione, Gabès.
A Saïda Boccosi (nella foto, intento a comporre nel Campo) scrisse la trilogia Nell’Uadi Saida per violoncello e pianoforte, una Suite per coro e orchestra (perduta), le canzoni La mia compagna e Mia stella appari anche tu per tenore e pianoforte e i suoi capolavori ossia il monumentale Diario di guerra e prigionia op.39 per pianoforte (orchestrato dopo la Guerra) e l’opera in tre atti La lettera scarlatta, ispirata all’omonimo romanzo di Nathaniel Hawthorne su libretto di Umberto Pavia.
Nel Campo, Boccosi disponeva unicamente di un harmonium, quattro violini e un coro maschile; replicò sino a sette volte il medesimo concerto (lui stesso concertatore e direttore all’harmonium) perché tutti i prigionieri del Campo potessero ascoltarlo.
Dopo la liberazione continuò la sua attività di compositore, sviluppando in maniera originale un linguaggio musicale che coniugava tardo–tonalità e strutture dodecafoniche; scrisse concerti per pianoforte e orchestra (da citare lo stupendo Concerto di mezzanotte a Venezia op.30), opere sinfoniche (Sinfonia Ciclica su due serie dodecafoniche op.40, Diario di Anna Frank op.50) e la complessa Sonata Ciclica op.47 per pianoforte.
Berto Boccosi era semplicemente un genio, inventò e realizzò persino un macchinario capace di accordare gli strumenti per terzi di tono (scrisse alcuni pezzi per organo specificatamente per tale sistema) ma era psicologicamente molto provato dalla Guerra; cercò persino di cancellare sui fogli delle sue opere scritte a Saïda ogni riferimento alla prigionia (come già fece per la Rapsodia scritta a Gabès); morì a Falconara Marittima il 27 marzo 1981.
La musica è una strada maestra che conduce l’uomo non necessariamente alla soluzione dei problemi ma di certo alla loro piena, profonda conoscenza; come afferma lo scrittore britannico Nick Hornby, “la musica ha il grande potere di condurti nel medesimo momento indietro e avanti nel tempo, così che tu provi contemporaneamente nostalgia e speranza.”
Tale fenomeno spinge l’anima di un uomo a cantare e suonare – da solo o in compagnia – quando avverte il pericolo e l’angoscia di pensieri di morte che d’improvviso scorrono sullo schermo dell’esistenza come ombre di un teatro cinese; basta affacciarsi in queste sere ai balconi d’Italia o d’Israele e ascoltare cosa stanno facendo centinaia e centinaia di persone, musiciste e non.
Nel novembre 1956 a Budapest, durante i giorni della Rivoluzione, la Radio statale ungherese trasmetteva i Préludes di F. Liszt; nel giugno 1967 a Beer Sheva, durante la Guerra dei Sei Giorni, Leonard Bernstein suonava la Rapsody in Blue di G. Gershwin per le truppe dell’esercito israeliano ma anche durante la nera stagione degli attentati, gruppi di musicisti cantavano e suonavano per le strade di Tel Aviv e Bat Yam per rincuorare la gente che rimaneva in casa.
C’è un ponte miracoloso che attraversa i decenni e collega il 1940 al 2020 passando per tutti i più cruciali crocevia della Storia ed è la musica ai tempi dell’afflizione; non sconfiggeremo il virus con la musica ma grazie a essa riusciremo probabilmente a sconfiggerne la paura.
E questa è già una vittoria.
Francesco Lotoro