Unità nazionale
L’unità nazionale, prima di essere una formula politica, è (o dovrebbe essere) un valore vissuto intimamente da ogni cittadino della Repubblica. La vicenda dell’epidemia da coronavirus mostra che questo valore manca nella maggioranza delle persone che il passaporto indica essere di nazionalità italiana.
Manca, prima di tutto, da un punto di vista territoriale. La fuga disordinata da Nord a Sud ha evidenziato dove è realmente collocato il vero senso di appartenenza di una larga parte delle persone che anagraficamente risultano residenti nelle regioni del Nord. Questa fuga ricorda sinistramente un’altra fuga, compiuta in condizioni ben più drammatiche nelle giornate successive all’8 settembre 1943. Anche allora l’unica soluzione di fronte a una situazione drammatica fu la fuga, il tentativo di rifugiarsi nell’unico grembo che si avvertiva come capace di protezione, la famiglia, che, insieme al clan, costituiva – e in larga misura costituisce ancora oggi – il vero tessuto connettivo delle popolazioni che vivono nel meridione d’Italia. Il senso di appartenenza a uno Stato nazionale si rafforza o naufraga tutte le volte che una vicenda drammatica costringe a fare i conti con la propria identità e con i vincoli reali che legano un individuo a una comunità.
D’altra parte tutta la storia d’Italia ci mostra che la massima forma di unità possibile era quella contrattata a Plombières nel 1858 da Cavour e da Napoleone III: tre Stati (del Nord, del Centro, del Sud) uniti dal blando vincolo di una confederazione. Le vicende successive hanno mostrato che per il Nord e il Centro gli aspetti comuni superavano quelli di differenziazione, mentre insormontabile è apparso il divario, non solo economico, con il Sud. Il Risorgimento resta una pagina bella e generosa ma la cui fragilità emerse subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia, con la tragica vicenda della ribellione delle province meridionali. Da allora Nord e Sud sono rimasti profondamente divisi, e non solo come livello di reddito e tasso di sviluppo economico.
C’è stato forse un solo momento nella storia d’Italia nel quale l’unità nazionale si poteva cementare: è stato quello della I guerra mondiale, nella quale le genti del Nord e del Sud si sono trovate unite nel dolore delle trincee. Ma, passato quel momento, l’assurdo mito della “vittoria mutilata” e la mancata riforma agraria nel Sud riportarono le cose al punto di partenza: con il fascismo si tornò all’unità nazionale come espressione retorica dietro la quale le antiche divisioni non solo si perpetuarono ma si accentuarono. Che la fine della dittatura sia venuta nel modo che sappiamo, con il colpo di Stato di un sovrano che qualche settimana dopo apriva la strada a un nuovo crollo dell’unità nazionale, quello dell’8 settembre, non fu casuale, anzi favorì una nuova e più profonda divisione dell’unità nazionale: quella tra il Regno del Sud e il Nord a sua volta diviso tra Repubblica Sociale e Resistenza antifascista.
L’atto solenne che avrebbe dovuto sancire l’avvenuta riunificazione – il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 – evidenziò invece ancora una volta una profonda divisione: Il Sud dette una schiacciante vittoria alla monarchia della dinastia fuggiasca, compensata con difficoltà con il successo repubblicano nel Centro-Nord, dovuto però all’egemonia politica delle sinistre e in particolare del PCI, che prefigura una debolezza di nuovo tipo dell’unità nazionale.
Il dopoguerra infatti non riportò al potere i partiti risorgimentali, ma ne fece emergere due che avevano entrambi due riferimenti ideali extranazionali: uno, l’universalismo della Chiesa cattolica; l’altro, un diverso universalismo, quello del movimento comunista internazionale.
Quando, con la crisi del 1992-1994, questi partiti non riuscirono più a essere credibili agli occhi dei cittadini, il loro posto – dopo alcune convulsioni – venne preso da due partiti che sono espressione delle due parti in cui il Paese continua a essere diviso: la Lega che – nonostante le boutades nazionalistiche del suo attuale leader – continua ad essere nella sostanza il partito del Nord; e il M5S che, in maniera del tutto trasparente, è il partito del Sud. Il PD esprime soltanto il tentativo di sopravvivere unendosi dei due partiti che avevano dominato durante la Prima repubblica, ma senza più esprimere alcuna capacità creativa, come è reso evidente dalla mediocrità dei suoi leader.
Quale sarà lo scenario che verrà a crearsi dopo la fine dell’epidemia è difficile prevedere. L’unica cosa certa è che la formula che si è espressa con il governo Conte non reggerà alla prova. Che cosa ne emergerà non è chiaro: il Nord con la Lega vorrà gestire il dopo epidemia, ma non ha i numeri parlamentari per farlo anche dopo eventuali elezioni. Avrà perciò bisogno dell’alleanza con Fratelli d’Italia, che, al di là della relativa popolarità della sua leader, continua a essere il partito della nostalgia neofascista destinato a raccogliere nel Sud l’eredità del M5S che farà pesare in un futuro governo questa sua rappresentanza. Si riproporrà così l’antico schema di un Nord egemone e scontento e di un Sud rancoroso: l’unità nazionale sarà ancora una volta solo un’espressione retorica.
Valentino Baldacci
(26 marzo 2020)